Milano: 7 dicembre 2017 – ANDREA CHENIER – Umberto Giordano

Milano: 7 dicembre 2017 – ANDREA CHENIER – Umberto Giordano

ANDREA CHÉNIER

Dramma di ambiente storico in quattro quadri

Libretto di Luigi Illica

Musica di UMBERTO GIORDANO

(Copyright ed edizione: Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano)

Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 28 marzo 1896

Nuova produzione Teatro alla Scala

 Nel cinquantenario della scomparsa di Victor de Sabata

 

Direttore RICCARDO CHAILLY

Regia MARIO MARTONE

 

Personaggi e interpreti

  •  Andrea Chénier: Yusif Eyvazov
  • Maddalena di Coigny: Anna Netrebko
  • Carlo Gérard: Luca Salsi
  • La mulatta Bersi: Annalisa Stroppa
  • La Contessa di Coigny: Mariana Pentcheva
  • Madelon: Judit Kutasi
  • Roucher: Gabriele Sagona
  • Pietro Fléville: Costantino Finucci
  • Un “Incredibile”: Carlo Bosi
  • Fouquier Tinville: Gianluca Breda
  • Mathieu: Francesco Verna
  • L’Abate: Manuel Pierattelli
  • Schmidt: Romano Dal Zovo
  • Il Maestro di Casa / Dumas: Riccardo Fassi

Scene MARGHERITA PALLI

Costumi URSULA PATZAK

Luci PASQUALE MARI

Coreografia DANIELA SCHIAVONE

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala

Maestro del Coro BRUNO CASONI

Con la partecipazione del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala diretto da Fréderic Olivieri


“Adda passà ‘a nuttata”.

Cioè la fatidica serata di Sant Ambreus con i riflettori e tutte le TV puntate sulla Scala, tutti in fibrillazione per l’evento dell’inaugurazione di stagione sotto la volta del Piermarini. Il “bravo cronista”, e molto immodestamente l’impiccione è cosciente delle proprie qualità oltre che dei tanti limiti, sa che bisognerebbe aspettare il corso delle recite per poter dare un giudizio il più possibile ponderato.

Non di meno l’urgenza del web – croce e delizia dei tempi che viviamo – impone una prima esternazione su quanto ieri sera si è visto e udito, maluccio poiché la qualità audio delle riprese RAI è perfettibile, comodamente seduti in poltrona davanti allo schermo di 55 pollici, che nel bene e pur nel male – quando i dettagli dell’ugola o della lingua umettante si vorrebbero evitare – è pur sempre un gran vedere.

In attesa di accedere al Tempio il prossimo 13 dicembre per la terza recita “sia strofe ultima dea“. Iniziando dalla lieta novella, dopo sussurri e grida che hanno infestato i social, di scoprire nel protagonista, il tenore azero Yusif Eyvazov, un cantante ed artista di tutto rispetto. E ciò indipendentemente, anzi nonostante, il fatto che sia il compagno della super star del momento, amatissima in Scala, Anna Netrebko. Voci di corridoio (della Scala, ovviamente) avevano anticipato che, in prova, si percepiva un rozzo cantante dal volume rigoglioso, ma dal timbro sgradevole, dagli acuti squillanti, ma penalizzati da un centro morchioso, piatto come interprete ed inerte nel fraseggio. Oh qual sorpresa! La ripresa audio, non favorendo nessuno, ha forse ammorbidito un ascolto che va verificato, come sempre, dal vivo. Certo il colore non è quello solare del Carreras del bel tempo andato (che io ascoltai ancor prima che alla Scala, quale Chénier al Liceu a fianco della Caballé) ma indubbiamente il buon Yusif sa come si canta, colorando, smorzando, dando un senso alla parola cantata, infiammandosi dove è richiesto. Il suo ingresso, il fatidico “Improvviso” biglietto da visita a freddo, lo ha messo in luce subito e non fosse che i suggerimenti della regia, leggi della direzione d’orchestra, imponessero il passo spedito senza possibili soste per applausi dopo le arie, c’è stato un mezzo tentativo piuttosto significativo. Ma il bravo azero si è prodotto in crescendo: nel duetto con Roucher, dove il canto si espande con enfasi poetica, nel successivo duetto con Maddalena. Un piccolo cedimento nell’attacco in pianissimo di “Ora soave” – un nulla appena percettibile se paragonato al miagolio che emise Kaufmann a Londra – è attribuibile alla tensione nervosa, poi in crescendo culminando con un “Come un bel dì di maggio” e nel duettone finale. L’inutil precauzione di uscire tutti assieme appassionatamente alla ribalta finale non lo ha gratificato del successo individuale che avrebbe assolutamente meritato. Ma ci si rifarà nelle repliche.

Chi deve -dovrebbe, cioè – aggiustare il tiro, lo ha fatto già in corso di recita, è lei “la donna russa”. Penalizzata dalla ripresa TV insistita in troppi primi piani, facendola comparire più volte come una sorta di Milva della lirica, con sproporzionati allargamenti della bocca. Anna Netrebko ormai volta ad un repertorio spinto, dovrebbe capire che Maddalena di Coigny non è una Valchiria che arciona Grane in corsa verso il Walhalla, ma una donna innamorata. Superato il primo atto, dove è parsa quasi fuori parte, nel secondo durante l‘incontro con Chénier, laddove ha iniziato a cantar piano e ad emettere i suoni senza cercare inutili affondi, è tornata ad essere quella grande cantante che conosciamo. Così pure nella celeberrima “La mamma morta” ha, quanto meno, cercato una cifra interpretativa personale, anche se è parsa un po’ sopra le righe. Il meglio lo si è avuto nell’ultima scena, quando l’enfasi di entrambi è richiesta e giustificata da musica e dramma. Però, una punta di delusione rimane e certo, pur con tutte le riserve del caso, ci si aspettava di più. Luca Salsi senza barba si fatica a riconoscerlo: la ripresa TV non lo ha favorito, specie nella prima scena quando è imparruccato ed in livrea. Però la voce è rigogliosa, il bel timbro baritonale morbido e l’emissione fluida ne fanno una garanzia. Sono convinto però, che pure lui è destinato a “crescere” in corso di repliche, pur avendo portato a casa un’ottimo “Nemico della Patria” che in altra situazione sarebbe stato subissato da applausi.

Della lunga lista di parti di fianco va detto che tutte erano registicamente ed interpretativamente centrate. Di Carlo Bosi, Incredibile, non si scopre nulla, avendolo ammirato nell’edizione londinese dove, a mio modestissimo avviso con la Madelon di Elena Zilio, era quello più in parte. Un ruolo che per sottigliezza melliflua e cinismo si fatica a pensare affidato ad un altro. Della Madelon di Judit Kutasi, che ripresa da vicino si vede … lontano un miglio che non è nè vecchia nè cieca, ci si dimentica subito: si dirà che era adeguata, ma la Zilio avrebbe meritato essere qui e fu grave sbaglio non garantirsela. Bene invece aver scelto Annalisa Stroppa che dell’impestata parte di Bersi, con quell’arietta tutta urlata sul passaggio e sotto un’orchestra che picchia, è venuta a capo con grande disinvoltura sia scenica che ovviamente vocale. Mariana Pentcheva ha un suo bel perché quale impettita Contessa di Coigny ed è piaciuto pure Gabriele Sagona, l’amico Roucher; assai bene il Sanculotto Mathieu di Francesco Verna e anche il Romanziere Fléville del baritono Costantino Finucci. L’Abate ha trovato un elelemnto di spicco nel tenore Manuel Pierattelli e, per concluderla qui, tutti gli altri si son fatti apprezare.

Apprezzabilissimo il lavoro di Riccardo Chailly che, è stato ripetutamente detto, quest’opera ama e si percepisce. Per altro mi ricordo benissimo, e come non potrei, le elettrizzanti recite di oltre trent’anni fa. Sotto la sua direzione questo autentico capolavoro prende il volo e ci ritorna in tutta la sua appassionante freschezza e poesia con una tensione e nel contempo una scioltezza ideale. Seguito in ciò da orchestra e coro in stato di grazie, e grazie alle cure del caro Maestro Bruno Casoni.

Lo spettacolo, infine: la ripresa televisiva impone, come già detto, inquadrature che spesso risultano fuor vianti: specie quelle riprese dall’alto in cui, più che altro, si vedono le lampadine al posto delle candele. Perciò ci si aspetta di goderselo in teatro, scegliendo su chi puntare lo sguardo. Però Mario Martone ha indubbiamente fatto un bel lavoro. Nell’ambito della tradizione, si dirà: no, nel rispetto della Storia e della drammaturgia. Di fatto tutto è esposto con facilità di lettura e con un movimento molto naturale e spontaneo delle masse, in ciò aiutato anche dalla coreografa Daniela Schiavone. La scena mobile di Margherita Palli è pressocché perfetta nel ricreare con un minimalismo che non risparmia dettagli i quattro ambienti. I costumi di Ursula Patzak risultano preziosi per la ricchezza delle stoffe e per gli accostamenti cromatici (questi sì favoriti dalla ripresa TV) e così le luci di Pasquale Mari, assolutamente centrate a ricreare atmosfere e anche tagli di luce di vivida suggestione.

Se proprio si vuole trovare un difetto, che son sicuro dal vivo e in teatro sarà trascurabile, è negli specchi della terza scena che hanno un effetto deformante che ridicolizza gli interpreti e pure l’affollamento del carcere nella scena finale, laddove l’attenzione dovrebbe essere concentrata solo sui due protagonisti. La salita alla ghigliottina, infine, sarà anche un tributo a Giorgio Strehler, ma è di innegabile effetto. In conclusione, proprio una bella inaugurazione.

Andrea Merli

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