Foggia:  GIOVE A POMPEI,  Umberto Giordano e Alberto Franchetti

Foggia: GIOVE A POMPEI, Umberto Giordano e Alberto Franchetti

Direttore:  GIANNA FRATTA

Regia: CRISTIAN BIASCI

Personaggi e Interpreti:

  • Giove: SERGIO VITALE
  • Lalage: DANIELA BRUERA
  • Aribobolo: ALDO CAPUTO
  • Parvolo Patacca: MATTEO D’APOLITO
  • Calpurnia: ANGELA BONFITTO
  • Marcus Pipa: FRANCESCO PITTARI
  • Aricia: ITALO PROFERISCE

Scene
FRANCESCO GORGOGLIONE curatore con l’Accademia di belle arti di Foggia

Effetti speciali e proiezioni in 3d
RAFFAELE FIORELLA

Light designer
RICCARDO CANESSA

ORCHESTRA SINFONICA DEL CONSERVATORIO DI MUSICA DI FOGGIA “U. GIORDANO”

CORO LIRICO PUGLIESE

Maestro del coro
AGOSTINO RUSCILLO


“Ofelè fa el to mesté”. Il motto meneghino (pasticcere fai il tuo mestiere) cade a fagiolo nello specifico caso dell’operetta Giove a Pompei, scritta a quattro mani da Alberto Franchetti ed Umberto Giordano, di cui quest’anno corre il 150esimo anniversario dalla nascita. Evento giustamente celebrato a Foggia, sua città natale, allestendo prima il capolavoro assoluto, Andrea Chénier ed ora producendo con lodevole coraggio la ripresa in tempi moderni dell‘operetta, dopo quasi un secolo dalla prima ed unica esecuzione avvenuta alla Belle Etoile, sede estiva del Teatro “La Pariola” a Roma il 5 luglio del 1921.

L’operetta, sorella minore dell’opera, è come una bella donna “traviata”: in pubblico disprezzata, ma privatamente molto frequentata. Attrasse irresistibilmente i compositori della “giovane scuola”, che in essa intravidero, oltre al fenomeno di moda che affascinava con richiamo ammiccante il pubblico della Belle Epoque, una fonte di facile guadagno e d’immediato successo. Ne furono fatalmente sedotti Mascagni e Leoncavallo, che pure avevano firmato il “manifestro del Verismo” con Cavalleria Rusticana e Pagliacci, tentando la via della finestra rispettivamente con e con La reginetta delle rose. Stava per invischiarsi pure il Sor Giacomo con La rondine che, con superiore sagacia teatrale, riciclò come opera con finale larmoyant, seguendo l’esempio del collega d’oltralpe Franz Lehar.

Franchetti e Giordano, s’imbarcarono in un’avventura che si trascinò per quasi cinque lustri. Guai a prenderla sottogamba, l’operetta. Capricciosa assai, proprio per la sua leggerezza, sfuggì loro di mano. La colpa in buona parte fu del librettista Luigi Illica, che sin dal 1897 ebbe l’idea di trarre un‘operetta con un plot antico-mitologico ambientato a Pompei alla vigilia dell’eruzione del Vesuvio, provocata dal dio Vulcano per ordine dell’irato Giove. La proposta, in prima istanza, fu inoltrata a Vincenzo Valente, celebre compositore di canzoni napoletane, la cui operetta I granatieri ebbe un grande successo al Teatro Gerbino di Torino già nel 1889, che rifiutò. La “tela” passò così alla coppia Franchetti Giordano (che erano fraterni amici, avendo il primo sostenuto la causa del secondo presso l’editore Sanzogno quando questi stava per metterlo alla porta) che si affidarono all’editore Ricordi, a cui non parve vero di “acquistare” la promettente coppia che spiritosamente definì, associandone il nome di Illica, la “santissima Trinità”. Curiosamente lo scambio di editori avvenne anche con Puccini, la cui Rondine fu pubblicata da Sonzogno.

Entrambi i compositori si misero alacremente al lavoro, sebbene presi da tutt’altra e più seria “geografia”: Franchetti con la sua Germania (Milano, 1902) e Giordano con la gelida Siberia (che vedremo la prossima stagione a Torino) data in “prima” a Milano il 19 dicembre del 1903. I libretti di entrambe le opere, per inciso, scritti dall’inesauribile Illica. A quanto risulta, Giove a Pompei era già pronto per la “mise en scène” nell’agosto dl 1901. Ricordi aveva pensato addirittura ad una première oltralpe, alla parigina Gaité diretta ai tempi dall’editore Choudens; in alternativa ad una prima londinese. La cosa cadde nel nulla. E di Giove se ne riparlò tra la fine del 1906 ed il principio del 1907. Era passato un decennio dall’inizio della gestazione, ma il genere operettistico aveva subito importanti mutazioni nel corso di un’evoluzione inarrestabile nel gusto del pubblico, specie trattandosi di un teatro così effimero. L’operetta francese di Offenbach ed Hervé, con l’inconfondibile spirito sarcastico e boulevardier, lasciava il passo alle molli seduzioni del valzer viennese, la lehariana Vedova allegra segnando lo spartiacque. Secondo l’editore, Giove a Pompei era ormai un “frutto fuori stagione”.

Passarono gli anni della “grande guerra” e giunti al 1919, come nella celebre canzone “La signora di trent’anni fa”, seppur vestita di voile e di chiffon l’operetta se ne stava in un cassetto. Franchetti, Giordano ed Illica cercarono di farsi forza l’un l’altro per partorire creatura e giungere all‘agognata “prima”. Il libretto, come del resto lo spartito, necessitava aggiustamenti e fu chiamato il quarto autore a firmare l’operetta: il “grecista” Ettore Romagnoli. Appena qualche mese dopo, Illica moriva. Passarono così altri due anni e finalmente si giunse al debutto. Il pubblico era quello delle grandi occasioni. Lo spettacolo, per il quale non si badò a spese, con le imponenti scene di Guido Galli ed i magnifici costumi di Caramba, piacque. Gli spettatori rimasero affascinati dal corpo di ballo – 40 ballerine 40 e pure piuttosto discinte – dalla luminotecnica che, mirabolante per quei tempi, simulò l’eruzione conclusiva con le lampadine e con fuochi d’artificio.

La critica si mostrò più severa, pur ammettendo che di idee e trovate sia musicali che sceniche, ce ne fossero di piacevoli ed esilaranti: i pompieri del Vesuvio, le lascive Pompeiane pronte a sacrificarsi a Giove. Fecero ridere le volute incongruenze ed allusioni alla contemporaneità: la lettera espresso da ritirare al fermoposta, Aribobolo di ritorno dalla guerra con una biga motorizzata, un sidecar, Giove e Ganimede scesi da un pallone aereostatico indossando la divisa di aviatori e, soprattutto, divertì il geniale personaggio del Professor Parvolo Patacca, inventore degli scavi e spacciatore di false antichità ai turisti di passaggio. Tra questi addirittura il Faraone, annunciato dalla fanfara come nell’Aida.

I tempi, però, ormai erano quelli della furoreggiante operetta italiana firmata da Carlo Lombardo, da solo o in coppia con Ranzato, piuttosto che con Costa e con Lehar, portata in tournée dalle sue dieci compagnie, alcune stabili, sparpagliate sull’intero territorio nazionale. La soubrette ed il capocomico, attore brillante, avevano preso il sopravvento sui “lirici”, relegati spesso a ruoli di mero contorno; il pubblico esigeva spettacoli sempre più brillanti, meno “impegnati”, se si può passare il termine nell’operetta. In defintiva, l’ingenuo couplet di stampo offebachiano, che in Giove a Pompei viene eseguito dalla contadinella Lalage, aveva lasciato il passo al vorticoso valzer e, soprattutto, agli sfrenati ritmi giunti da oltreoceano: lo shimmy e, soprattutto, il fox-trot.

  

Il lungo preambolo, che mi auguro risulti utile al lettore per inquadrare storicamente il lavoro di Franchetti e Giordano, è la premessa necessaria alla recensione vera a propria di uno spettacolo, diciamolo subito, riuscitissimo, accattivante e per molti versi sorprendente: onore al merito del direttore artistico ed impresario Dino De Palma. Allestire un’operetta – questa in particolare, “nuova” ed ignota a pubblico e critica – è operazione tutt’altro che scontata, anzi meritevole di lode ancor più della produzione di un’opera, specie se questa è popolare. Il passaggio dalla recitazione, in questo caso sovrabbondante poichè per motivi “filologici” l’operetta s’è eseguita integralmente sulla base della ricostruzione meticolosa dello spartito – l’originale andò distrutto in un incendio nel 1945 – al canto con fluidità e naturalezza non è fatica da poco e, tenendo conto dei tempi sempre ristretti delle prove, si è assistito ad un vero miracolo. Tutti gli interpreti si sono dimostrati perfettamente in parte, sia sul piano strettamente vocale che su quello scenico, interpretativo. Ottimo il lavoro registico di Cristian Brasci che ha saputo cogliere l’essenza di un testo che, in fase di ripresa, potrebbe conoscere l’uso delle forbici nel parlato, oggettivamente prevaricante, ma che si è reso con sapidezza. Non meno che con compostezza musicale, grazie alla bacchetta tutta al femminile di Gianna Fratta, a capo della valente Orchestra del Conservatorio Umberto Giordano di Foggia, bravissima nel dare gli attacchi e nel contenere le sonorità di un’orchestrazione che, seppure ad organico ridotto, rischia di essere, se non prevaricante, a volte fin troppo esuberante. Assai bene sia musicalmente che per la resa scenica il Coro Lirico Pugliese, chiamato anche in piccole parti solistiche nella recitazione ed istruito con rigore da Agostino Ruscillo. Bella la scena praticamente fissa ricavata dai bozzetti frutto di un’esercitazione didattica guidata dallo scenografo Francesco Paolo Gorgoglione con gli studenti dell’Accedemia di Belle Arti di Foggia. Azzeccatissimi i costumi della Sartoria Shangrillà di Diego Pecorella ed eccezionale il “trucco parrucco”, contributo determinante allo spettacolo, gestito da Mariangela Spagnolo, Grazie Principe e Roberta Fabiano.

Menzione speciale alla luminotecnica, non meno decisiva in questa operetta “eruttiva”, creata da Riccardo Canessa e perfette pure la video proiezioni di Raffaele Fiorella. Giada Ordine, coreografa, non ha avuto a disposizione le quaranta ballerine della “prima” romana, ma ha comunque ideato delle spiritose coreografie con l’esiguo corpo di ballo, coinvolgendo pure il coro, in specie quello femminile.

Infine il cast in cui tutti hanno avuto possibilità di mettersi in luce: inizando dalla seducente e spiritosa Lalage impersonata dal soprano Daniela Bruera, che si è mossa con estrema disinvoltura sia nella recitazione che nel canto su uno spartito che non concede sconti e che anzi richiede dovizia di acuti e sovracuti in contrasto con l’abituale centralità di tessitura del soprano nell’operetta. Deliziosa ed ammiccante nei couplets, lirica e sognante in improvvisi ripensamenti della per altro disinvolta contadinella, pronta a dimenticare l’innamorato e concedersi a Giove per amor Patrio e previa retribuzione in vesti e gioielli. Giove ha trovato nel baritono Sergio Vitale sia la fisicità imponente che la vocalità insolitamente preziosa per un ruolo, tutto sommato, da buffo. Fedele, in ciò, a quanto rilevò già la critica del 1921: “Il padrone dell’Olimpo è […] un gran signore raffinato e, nonostante l’età, ancor piacente e alquanto lezioso, ma con un certo contegno”. Una sorta di Sir John Falstaff, insomma, in versione operettistica ma di cui Giordano e Franchetti (chissà poi quale dei due?) ne tennero ben conto nel momento di mettere in musica l’arioso “Innamorato alla mia tarda età!”.

Una menzione davvero speciale la merita il baritono Matteo D’Apolito, di San Giovanni Rotondo. Il ruolo di Parvolo Patacca, che alla “prima” nel 1921 fu affidato al celebre cantante attore, poi regista e capocomico, Riccardo Massucci, richiede l’impegno di un grande attore, oltre che una linea di canto in grado di affrontare sia le pagine solistiche che i concertati, piuttosto impegnativi specie quello a conclusione del secondo atto. Ricalcando giustamente i tratti del celeberrimo Nerone di Petrolini, che poi fu una creazione di quei lontani tempi, è riuscito a darne un’immagine esilarante e molto dinamica, tenendo conto della lunghezza della sterminata sua parte parlata: bravissimo. Assai in parte e squillante nel ruolo che Illica stesso definì “miles gloriosus”, il tenore Aldo Caputo, baldanzoso e gelosissimo Aribobolo. Altrettanto brava la coppia formata dal tenore Francesco Pittari e dal mezzosoprano Angela Bonfito, lui il pompiere Marcus Pipa e lei Calpurnia, moglie non troppo fedele del sacerdote Aricia, questi il profondo basso Italo Proferisce. Esilaranti nelle rispettive caratterizzazioni sia il sempre brillo Ganimede, non a caso coppiere degli dei, del tenore Orazio Tagliatela Scafati, che l’effeminato parrucchiere Macrone Massimo, recitato con estrema precisione negli scioglilinguagnoli in latino approssimativo dal basso Graziano De Pace. In parti marginali, ma non perciò passati inosservati, si sono distinti l’ingenuo Faraone di Mattia Galantino, che compra l’elmo di Brenno disotterrato da Patacca, e la di lui consorte, attratta più che altro dai muscoli dei pompeiani e disposta, seppur straniera e per motivi esclusivamente umanitari, a concedersi a Giove.

Il folto pubblico che occupava in ogni ordine il Teatro Umberto Giordano, ha dimostrato di gradire assai, applaudendo a scena aperta e ridendo alle battute più salaci ed ai calembour che, oggi come oggi, hanno riconquistato un’inaspettata “modernità”. Un solo peccato, compensato però dalla ripresa video che dovrebbe poi essere commercializzata: le due sole repliche. Ma se qualche teatro se ne prendesse la briga, questo è uno spettacolo da far girare!

Andrea Merli

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