ANNA BOLENA – Teatro alla Scala, 31 marzo 2017

ANNA BOLENA – Teatro alla Scala, 31 marzo 2017

 ANNA BOLENA

 Tragedia lirica in due atti

Libretto di Felice Romani

Musica di GAETANO DONIZETTI

 (Edizione critica a cura di Paolo Fabbri; Fondazione Donizetti di Bergamo e Casa Ricordi, Milano)

Prima rappresentazione: Milano, Teatro Carcano, 26 dicembre 1830

Prima rappresentazione al Teatro alla Scala: 25 febbraio 1832

Produzione Grand Théâtre de Bordeaux

 

Direttore  ION MARIN

 Regia  MARIE-LOUISE BISCHOFBERGER

 

 

 

Personaggi e interpreti principali:

  •  Enrico VIII, re d’Inghilterra: Carlo Colombara
  • Anna Bolena, moglie di Enrico VIII: Hibla Gerzmava, Federica Lombardi (8, 20, 23 aprile)
  • Giovanna Seymour, damigella di Anna: Sonia Ganassi
  • Lord Rochefort, fratello di Anna: Mattia Denti
  • Lord Riccardo Percy: Piero Pretti
  • Smeton, paggio e musico della regina: Martina Belli
  • Signor Hervey, ufficiale del re: Giovanni Sala*

*Allievo dell’Accademia Teatro alla Scala

Scene  ERICH WONDER

Costumi  KASPAR GLARNER

Luci  BERTRAND COUDERC

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala

Maestro del Coro BRUNO CASONI


Son passati trentacinque anni, ma quelle serate infuocate – sebbene fosse febbraio – in loggione alla Scala me le ricordo come fossero ieri. La sera del 14, quella della attesissima prima, appollaiato in una stracolma seconda galleria (i tempi delle “restrizioni” imposte da Muti per il ritorno della Traviata erano di là da venire) ascoltai attonito quell’annuncio che non riuscì ad essere completato e cui seguì un pandemonio inaudito, della durata di oltre un’ora, concluso con la sospensione della recita. Tentò, del tutto inutilmente, Giulietta Simionato – indimenticata Seymour a fianco della Callas nelle stagioni del ‘57 e ‘58 – di placare gli animi inferociti che non potevano e volevano accettare la sostituzione della presunta malata Caballé con la povera Ruth Falcon, già pronta per entrare in scena. E mi pare di udire ancora, tra le mille urla, il grido del compianto amico Eugenio Laguri, al mio fianco, che urlò col suo peculiarissimo arrotondamento della “erre”: “Gulietta, non faRti stRumentalizzaRe!”. Poi venne la sera del 21, una settimana più tardi, quando finalmente la risanata Montse affrontò la scena e, nuovamente, accadde di tutto fino al precipitoso calar del sipario. Dal loggione imbestialito piovve pure l‘epiteto “Strega!”. Quindi arrivò la Gasdia, fresca vincitrice del concorso Callas e “miracolosamente” le recite proseguirono “senza trucco e senza inganno”, si fa per dire.

Impiccionescamente della Bolena-Caballé si aveva già avuto un buon assaggio il 2 gennaio di quello stesso 1982, al Gran Teatro del Liceo di Barcellona, dove la “Senora” aveva la saggia abitudine di debuttare quasi tutti i ruoli prima di affrontarli in teatri a rischio, come appunto era la Scala per un titolo monstre legato alla memoria della “Maria” ed in presenza di innumerevoli “vedovi Callas”, all’epoca tutti vivi e vegeti e pronti a difendere la beniamina da ogni presunto oltraggio alla memoria.

C’era già stato, a dire il vero, qualche anno prima un fallito tentativo sempre al Liceo. In quell’occasione, però, il celebre soprano cittadino, forse per un saggio consiglio o più probabilmente perchè giunta alle prove senza sapere la parte, cedette lo scettro della sfortunata regina alla canadese di origine russa Milla (Ludmilla) Andrew, che Bolena era già stata e con un certo successo a Glyndebourne nel 1968. Nell’82 al Liceo sul podio c’era il “fedele“ Armando Gatto e in scena con la Montsy, Cesare Siepi, Luis Lima, Alicia Nafé e Jane Berbié, tra gli altri. Il primo pensiero nell’ascoltarla ancora impreparata e, soprattutto, in palese difficoltà nella parte, fu quello: “Se si presenterà così in Scala, la stangheranno”. E fui profeta allor!

E finalmente si arriva a venerdì scorso, 31 marzo 2017. Anche in questo caso le aspettative puntavano sulla partecipazione di Maria Agresta, la quale declinò l’invito. Si era ipotizzato pure il nome della Netrebko, che preferì la più “tranquilla“ Violetta ad una Bolena, titolo che comunque sarebbe opportuno evitare sotto la volta del Piermarini qualora non si disponga di un’interprete di primo piano. Anche il direttore, Bruno Campanella, nel frattempo era caduto dal cartello. Si poteva cancellare il titolo, ma no: avanti tutta!

Evitato scaramanticamente l’allestimento storico Visconti – Benoit (ammesso e non concesso che dopo 35 anni esista ancora e non sia finito al macero come tanti altri bellissimi spettacoli mai più ripresi) che per il suo forte effetto evocativo fu ritenuto motivo di “sfiga” nel 1982, si poteva produrre una nuova Bolena: non saranno certo i soldi a mancare in Scala. Oppure proporre uno degli allestimenti in libera circolazione sul suolo italico, quello firmato da Graham Vick o piuttosto quello con la regia di Alfonso Antoniozzi, giusto per citarne due. Non sia mai! E quindi si voli a cogliere quello dell’Opéra National di Bordeaux, come dire la provincia francese che fa comunque chic. In ciò confermando inveterato ed inguaribile provincialismo.

Scelta infelicissima: spettacolo talmente brutto e di tale stupidità, laddove il grottesco involontario ha superato il limite del buonsenso, da far sembrare al confronto il poco convincente per il sottoscritto allestimento visto a Parma degno della firma di Visconti e Ronconi messi assieme. Se poi penso che al compianto Beppe De Tomasi fu negato l’accesso alla Scala per concederlo, ora, a tale Marie-Luise Bischofberger, vedova Bondì, m‘incazzo pure. Una misera scena sghemba, moda che si pensava superata come la cotonatura dei capelli per le dame ed i pantaloni a zampa di elefante dei “caballeros”, brutti costumi senza logica e senza stile: il mantello “optical” con reverse  di finta pelliccia che indossa Enrico VIII per andare a caccia è cosa indescrivibile; maldestro nell’illuminazione. Il pubblico della “prima” lo ha condannato senza possibilità di appello buhando senza pietà i responsabili alla ribalta finale.

Si è vista Elisabetta bambina, “figlia impura di Bolena, meretrice indegna oscena” di lì a poco, caracollare continuamente a piedi scalzi su e giù per il palcoscenico, pure nella scena del giudizio, col padre che le tappava le orecchie affinché non ascoltasse le accuse infamanti rivolte alla madre e quindi poco prima della decapitazione. Si è visto Hervey portare un secchiello col ghiaccio ed una bottiglia di prosecco per far brindare con due flutes Enrico e Giovanna alla fine del loro duetto nel primo atto; lo stesso assistere fumando alla perorazione della regina, in carcere sì, ma incoronata che diamine! Quindi la stessa procedere alla pedicure durante la scena della pazzia – trovata non nuova, già attuata da Michael Aspinall nel 1970 in uno spettacolo di Paolo Poli, quando interpretando la scena della pazzia di Lucia di Lammermoor si contava le dita dei piedi – mentre le dame di corte stanno intente a cucire al buio il sudario ed una strana figura (la morte?) si aggirava tra i veli con un corvo in testa; l’incombente trono trasformato da scanno in scaletta, che però non conduce ad alcuna parte; Smeton con tricorno, novello Cherubino ed altre amenità, culminando con la “coppia iniqua” che, sul motivo festoso che precede la cabaletta finale della protagonista, danzava in fondo scena il boogie-woogie.

Potevano in tal contesto le vicende musicali andar meglio? A renderle problematiche ci ha pensato Ion Marin, direttore di ormai lunga carriera, che ci ha ammanito una piatta routine, gravosa di slentatezze e sonorità straripanti e soprattutto ha apportato tagli che oggi paiono inconcepibili alla partitura. Ai tempi del “buon” Gavazzeni, le forbici erano, con buona pace di tutti, giustificate da una tenuta eccezionale di orchestra e palcoscenico, da una lettura sempre stimolante. Bene al solito il coro, diretto come sempre dal solerte Bruno Casoni.

Si passi al cast. Tutto sommato una “lieta sorpresa” l’ignota a tutti Hibla Gerzmava, dotata di grinta e temperamento, voce salda e sonora, e di una sostanziale tenuta in un ruolo faticoso, che è come cantare due Norme di fila. Timbro un po’ vetroso in alto, la voce afflitta man mano che si svolgeva la recita da un vibrato piuttosto molesto e mettiamoci la stanchezza e la tensione. Aggiungiamo un “Dolce guidami” risolto senza poesia (buona parte per colpa della bacchetta) eppure in un contesto dove di variazioni, di puntature acute e di riprese di cabalette e strette nei concertati non c’era nemmeno l’ombra, una prova nel complesso sdoganabile, buona per un secondo cast ma non sufficiente per un teatro come la Scala. Le ha arriso, comunque, un gratificante successo personale e rimane la voglia di sentirla in un repertorio più affine alle sue caratteristiche vocali ed interpretative, perché la stoffa indubbiamente c’è.

Sonia Ganassi riprende con Seymour un ruolo a lei familiare e lo risolve, forte di una personalità che si impone, con stile e coinvolgente partecipazione scenica; l’abbiamo sentita in condizioni vocali più felici, ma anche in questo caso la tensione del debutto scaligero, la direzione e la regia devono aver giocato la loro parte. Chi ne ha fatto maggiormente le spese è stato il pur valente Carlo Colombara, pochi mesi fa apprezzato nell’Attila a Modena. Vuoi una palese condizione vocale non ottimale, vuoi il ruolo troppo acuto, il suo Enrico VIII non era a fuoco né scenicamente, né vocalmente; l’intonazione ha spesso ceduto e la voce non si è espansa come è suo solito. La bordata di “buh” che lo accolto è stata impietosa e anche esagerata: “una mala noche la tiene cualquiera“ per dirla nella lingua di Cervantes. Piero Pretti è stato accolto da applausi convinti e grida di “bravo”: anche lui è da riascoltare in replica, più rilassato. Ma già così, pur essendo un tenore stilisticamente più portato a Verdi e prestato in questo caso al Donizetti più esigente, ha dato prova di possedere un registro acuto solido e pure il fraseggio è stato curato e nobile. Ottimo lo Smeton di Martina Belli; da seguire con attenzione il tenore Giovanni Sebastiano Sala, Hervey, procedente dall’Accademia di Perfezionamento della Scala. Completava il cast il sonoro Rochefort del basso piacentino Mattia Denti.

Il pubblico non ha lesinato applausi dopo le singole arie e brani chiusi, anche se qualche insistito zittio e sinistri sibili durante I siparietti per il cambio scena (che poi era un cambio attrezzi!) potevano preannunciare un’accoglienza tutt’altro che festosa, specie per il direttore d’orchestra che si è portato a casa, pure lui, la una buona dose di fischi e “buh”.

Andrea Merli

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