Martina Franca – 42° Festival della Valle d’Itria: FRANCESCA DA RIMINI

Martina Franca – 42° Festival della Valle d’Itria: FRANCESCA DA RIMINI

FRANCESCA DA RIMINI

 Saverio Mercadante

Palazzo Ducale, 30 luglio

 

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Incredibile ma vero, un’opera di Saverio Mercadante ha atteso 185 anni per essere rappresentata. La storia, compendio delle “convenienze ed inconvenienze teatrali” di tutti i tempi, potrebbe fornire argomento, non dicasi per un film, addirittura per una serie televisiva: “Anche i compositori piangono”. Protagoniste, in Paesi e teatri diversi, ben tre primedonne capricciose, pure sfiatata la prima: Adele Tosi. Ex amante di Mercadante e da costui suggerita e forse imposta all’impresa del Teatro de la Cruz di Madrid, la Tosi vi giunse nel 1830 con la voce a pezzi, ma sufficientemente venefica per creare attorno all’Autore una fama nefasta. La calunnia del Barbiere, come riportano le lettere, viperine anch’esse, che il buon Saverio scrisse sfogandosi all’amico Florimo, lo stesso che raccoglieva pure le confidenze del Bellini, una sorta di Donna Letizia ante litteram.

Lasciata in fretta e furia Madrid per riparare in Patria, Mercadante trovò alla Scala un altro intoppo. L’astro nascente della Grisi, Giulia ben inteso, prevista nel ruolo di Francesca, si scontrò con la più veterana stella, la Pasta. Giuditta di nome, ma poco giudiziosa di fatto, che, prima donna assoluta, pretese il nome in cartello. Mai e poi mai avrebbe cantato un’opera in cui la titolare del ruolo era l’altra. E dunque, non prendendo la via più corta, che sarebbe stata quella di cambiare il titolo in “Paolo e Francesca“, l’opera tornò nel cassetto. Va subito aggiunto che, seguendo la prassi del tempo, il buon Mercadante riciclò buona parte della musica, se non tutta, nella successiva – ed oggi pur sempre dimenticatissima – Zaira.

martina franca francesca da riminiDetta così, alla spiccia: questo fecondo artigiano della musica attinse tanto se non tutto da Rossini, senza raggiungerne ovviamente i vertici, a loro volta gli dovettero molto sia Donizetti e quindi ancor più Verdi, che disponendo di ben altre frecce misero decisamente a segno le loro opere con quel tocco di genialità che difettava al Mercadante, al punto di offuscarne la fama. Ricacciandolo oggi nel novero dei minori, quando in realtà ai tempi era considerato un grandissimo, specie in terra iberica.

A riportare ora alla luce la povera Francesca, disepellendola dall’oblio, ripescando e spolverando antichi scartafacci, ci ha pensato il Festival di Martina Franca con un’operazione perfettamente in linea con il compito della manifestazione, che poi è quello di riesumare titoli negletti. Per l’occasione si è presa per buona la nuovissima edizione critica curata da Elisabetta Pasquini, con cui abbiamo avuto diversi e chiarificatori incontri a Martina Franca. La quale ha seguito la gestione dell’opera con la trepidazione e le cure che una puerpera dedica il proprio neonato. Revisione pubblicata per Ut Orpheus, sebbene ve ne sia una precedente, pubblicata dall’Università Complutense di Madrid nel 2014 e reperibile on line: la tesi dottorale del torinese Paolo Cascio, cui si deve pure la riscoperta di un altro titolo di Mercadante, I due Figaro, rappresentato sia a Madrid che a Salisburgo. E’ pur vero che in questo campo, come del resto stanno a testimoniare le coeve Bohéme di Leoncavallo e di Puccini, non esiste la priorità. Comunque rimane un particolare che aggiunge “mistero” all’operazione, rendendola ancor più stuzzicante.

Passando alla recensione vera e propria va subito anticipato che l’opera non poteva essere servita meglio. Affidandone la parte visiva al “classico dei classici” Pier Luigi Pizzi, il quale alla soglia dei suoi 86 anni è stato pure insignito con l’ambito premio “Bacco dei Borboni” durante la permanenza martinese e che alla Valle d’Itria è tornato dopo una sua felicissima realizzazione dell’offenbachiana La Grande Duchesse de Gerolstein, protagonista l’indimenticata Lucia Valentina Terrani. Correva l’anno 1986, coincidendo col debutto impiccionesco al Festival e con la prima pubblicazione di un mio saggio sul programma di sala. Votato ad un essenziale minimalismo, ricco di abbondante e svolazzante “seta tempesta” sia nei tendoni neri che nei vaporosi e monocromatici costumi, Pizzi è stato coadiuvato dalla prestigiosa firma di Gheorghe Iancu, che ha creato le coreografie ed i movimenti scenici determinanti all’azione. Con scenica scienza Pizzi ha sfruttato, oltre che l’austera cornice fornita dalle severe pietre del Palazzo ducale, un’ammiccante passerella – già praticata nella Grande Duchesse – con cui ha ulteriormente integrato i cantanti, la musica al pubblico, accorso a frotte per tutte le tre recite che hanno registrato un impensabile tutto esaurito.

martina franca francesca da riminiE’ stata la parte musicale, comunque, a riservare le più liete sorprese. Se da una parte era scontato l’alto artigianato di Mercadante, che per la Francesca da Rimini ha scritto una paritura rigogliosa, pensata per un’orchestra corposa e che prevede diversi strumenti obbligati – l’arpa, il corno inglese tra gli altri – e non ha sorpreso la scrittura vocale rossiniana prevista per il tenore, il malcapitato Lanciotto marito “politico” di Francesca, cui è riservato un trattamento al limite delle possibilità della sua corda, costellato di sovracuti e tempestato di ardue agilità (lode incondizionata al bravissimo tenore turco Mert Sungu), dall’altra, specie nel secondo atto le anticipazioni, nello specifico verdiane, destano meraviglia e stupore: addirittura il “Lacrimosa” del Requiem e l’incipit del “Va pensiero” del Nabucco!

Pesa sullo spartito, che Mercadante non potè mai ascoltare in teatro, la mancanza di un’eventuale revisione da parte dell’autore. Diciamola tutta, si sentirebbe la necessità di qualche taglio. L’opera si fa lunga. Non son bastati i circa venti minuti sottratti alle continue ripetizioni per allegerirla. Pesa l’impegno sostanziale di sole tre voci: Lanciotto tenore, mezzosoprano “en travesti” per Paolo e soprano, Francesca, essendo il ruolo di Guido, padre di lei, affidato ad un basso, il pur bravo e giovane e promettente Antonio Di Matteo, una parte di fianco e le parti, pure drammaturgicamente marginali di Isaura e Guelfo due “pertichini”, a cui si richiede un notevole impegno vocale: la brava e bella Larissa Martinez ed il tenore Ivan Ayon Rivas a cui, a sorpresa, Mercadante riserva la puntatura acuta nel concertato finale primo.

martina franca francesca da rimniPesa, soprattutto, l’infelice libretto del pur celeberrimo Felice Romani, musicato prima di Mercadante da uno stuolo di autori ormai ignoti a tutti compreso il primo, Strepponi, padre di Giuseppina poi moglie del “rivale“ Verdi. Libretto raffazzonato ripetutatmente e sconclusionato. Basti pensare che Paolo e Francesca con il libro galeotto vengono colti sul fatto alla fine del primo atto, costituendo il secondo una sorta di prova d’appello concessa dal geloso marito al padre di lei. Il colmo, copo tre ore e quaranta di musica, si raggiunge nel precipitoso finale secondo – laddove forse lo stesso Mercadante si rese conto di aver sforato coi tempi – la cui conclusione avviene nel giro di pochi secondi con il suicidio di entrambi i protagonisti davanti ad un impotente e basito Lanciotto. C’è da dire che il libretto trae origine dal coevo dramma scritto da Silvio Pellico e non dall’episodio descritto con ben altri risultati da Dante nel suo Inferno.

martina franca francesca da riminiA crederci e con fermezza è parso sin dalle prime battute – manca una sinfonia – il Maestro Fabio Luisi, cui spetta di diritto il titolo di “mago” in quanto sotto la sua bacchetta la pur brava orchestra Internazionale d’Italia prende letteralmente il volo. Meno preciso il pur volenteroso coro della Filarmonica di Stato “Transilvania” di Cluj-Napoca, istruito da Cornel Croza. Superbo il cast, iniziando dalla bravissima protagonista, il soprano sivigliano Leonor Bonilla. Una fanciulla appena 26enne e fresca di debutto italiano, pochi mesi fa a Piacenza, quale deliziosa Fiorilla nel Turco in Italia, grazie all’oculata Cristina Ferrari che la prelevò di peso avendola ascoltata in quel di Tenerife. Che dire? Voce stupenda, emessa con sicurezza e dolcezza sia in pianissimi che in messe in voce da cantante navigata, sia nel settore acuto che domina con precisione e pulizia ammirevoli. Si unisca l’aggraziata figura, il fatto che abbia studiato per dieci anni danza classica e se ne intuirà il risultato superlativo frutto anche del lavoro di Pizzi e di Iancu che le ha produrato un meritatissimo trionfo personale. Trionfo che ha arriso anche all’altrettanto brava Aya Wakizono, Paolo, mezzosoprano giapponese di scuola italiana e dalla voce ambrata, vellutata e raffinata pur essa nella tecnica. Del tenore si è già detto, ma va aggiunto che l’entusiasmo del pubblico lo ha ripagato con grida incontenibili di “bravo“, dirette pure a tutti i fautori dello spettacolo.

Andrea Merli

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