CAGLIARI: L’ape musicale 14 luglio 2017

CAGLIARI: L’ape musicale 14 luglio 2017

azione teatrale in un atto,
(New York, 1830)
libretto Lorenzo Da Ponte
ricostruzione Francesco Zimèi, su commissione del Teatro Lirico di Cagliari

 

maestro concertatore e direttore: Alessandro Palumbo (14-17-18-22), Fabrizio Ruggero (24-26-28)

regia: Davide Garattini Raimondi

 

personaggi e interpreti:

  • Lucinda: Beatrice Mezzanotte
  • Mongibello: Daniele Terenzi
  • Don Nibbio: Salvatore Salvaggio
  • Narciso: Anibal Mancini
  • Don Canario: Mauro Secci

Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari
maestro del coro: Gaetano Mastroiaco
maestro al fortepiano: Giancarlo Salaris

scene e luci: Paolo D. M. Vitale
costumi: Giada Masi
coreografia: Barbara Palumbo

nuovo allestimento del Teatro Lirico di Cagliari


LAPE MUSICALE – Libretto di Lorenzo Da Ponte. Musiche di Rossini, Cimarosa, Zingarelli, Generali, Salieri, Kelly.

“Prima” a New York il 20 aprile del 1830, ricostruzione di Francesco Zimei.

A spiegarci cosa si intenda per Lape musicale ci pensa lo stesso autore. Celebre letterato, famoso librettista, ma anche impresario e soprattutto manipolatore di musiche altrui, l’ineffabile abate Lorenzo Da Ponte, approdato a Manhattan sulle rive del Hudson agli inizi del diciannovesimo secolo fuggendo da Londra, dai debiti del crack impresariale che lo aveva fatalmente coinvolto.

Dopo aver molto studiato sul titolo che poteva convenire a simile lavoro – confida il Da Ponte nella prefazione del libretto indirizzata a mo’ di dedicatoria “Agli abitanti della città di New York” – a quel mappigliai d’Ape musicale. Non offro dunque come giardiniere di Apollo un Giglio, una Rosa o una Giunchiglia drammatica, colta da me sulle vette di  quella montagna, ma a guisa di Pecchia, che suggendo e mescendo l’essenza di tali fiori forma ne’ favi il più dolce e grato dei cibi, così unendo quasi in un centro le più vaghe armonie de’ nostri favoriti compositori ho sperato dare de’ più piacevoli passatempi al cortese e discreto spettatore.

Si tratta in realtà di uno stratagemma che il Da Ponte aveva già sfruttato con eguale titolo in un primo esperimento a Vienna nel 1789, quando esordì al Burghtheater in ossequio a una pubblica sottoscrizione per il mantenimento in vita della compagnia d’Opera italiana. La formula era quella del “pasticcio, ossia il riciclaggio di pagine famose di autori  noti ed amati dal pubblico di allora su un canovaccio solitamente meta teatrale per dare al centone una trama che lo distinguesse da un banale concerto, conservando ma più spesso cambiando e parodiando le parole originali. L’operzione ebbe successo e fu replicata sempre a Vienna nel 1971, col titolo “L’ape musicale rinnovata” e quindi, seppure sotto il titolo “Il poeta impresario” si ha notizia di un’esecuzione triestina durante il carnevale del 1792, laddove all’ape cede il passo al palese autobiografismo dell’autore alle prese coi lazzi e vizzi di una compagnia alle prese con un’opera nuova.

Di queste api, forse un intero alveare, in verità ne svolazzarono tante in quella beata stagione. Da Ponte non fu certo l’unico “poeta impresario” in libera circolazione. Tra gli altri “apicultori” il basso Felice Angrisani, giunto in America nel 1825 con la compagnia capeggiata dal celeberrimo Manuel Garcia e che decise di rimanere a New York quando Garcia si trasferì in Messico con la sua compagnia, esclusa però la giovin figlia Maria non ancora 18enne che proprio a Manhttan contrasse matrimonio col banchiere Eugène-Louis Malibran assumendone il cognome. L’Angrisani, appunto, ne vantava una tutta sua, eseguita a Venezia nel 1815 e quindi ripresa più volte con successo.

Nel caso che ci riguarda, si trattò di uno stratagemma per dare lustro ad una virtuosa veneziana, la nipote Giulietta Da Ponte, sbarcata a New York il 18 febbraio di quel 1830. Brava e bella, ma ancora acerba ed inesperta, dal repertorio piuttosto limitato, sebbene si fosse portata dietro dall’Europa gli spartiti allora più in voga. Però quei concerti, tenuti nei salotti e davanti alla buona società americana, non potevano attirare il pubblico che era avvezzo a musiche più semplici, derivate da una tradizione tutta britannica delle Ballad Operas.

E dunque, sfruttando il materiale umano a disposizione, cioè il baritono Paolo Rosich giunto pure lui nelle Americhe a seguito del Garcia, e che era stato il primo Taddeo ne Litaliana in Algeri di Rossini, il basso Angrisani, diretto da Rossini in persona a Londra nel Barbiere, designando loro i ruoli decisivi del Poeta Mongibello e dell’Impresario Don Nibbio; coinvolgendo il meno noto “Signor Ferri”, che nella compagnia del Garcia alternava l’attività di pittore scenografo e “riserva” del tenore, quindi buono per il ruolo di Narciso, e tale “Mr. Metz”, che si è scoperto essere di nome Julius, di origine tedesca e pure lui con un vissuto rocambolesco in cui aveva fatto un po’ di tutto, dal compositore al maestro di ballo prima a Londra e infine dal 1819 a Brooklyn, nei panni del Maestro Sostituto Don Canario, il quale si rifiuta di cantare in italiano preferendo una ballata ai tempi fortunatissima di Kelly “Unfortunate MissBalley”, poté finalmente presentare la nipote nei panni della virtuosa “prima donna Lucinda” la sera del 20 aprile 1830 al Park Theatre di Brooklyn.

Il lungo preambolo, estrapolato dal prezioso saggio, opera di Francesco Zimei che ha curato la “ricostruzione” del libretto svolgendo un lodevole e scientifico lavoro di ricerca, pubblicato sul programma di sala, si rende necessario per far capire la genesi di quest’operazione, che a tutti gli effetti fu la prima opera italiana presentata nel Nord America.

L’azione si finge in una delle Isole Fortunate, che si vorrebbe fossero una delle Canarie, da lì il nome del Maestro che rifiuta cantare in italiano, ma in realtà è un omaggio a Manhattan, isola che ospitò il Da Ponte ed il Teatro. Non mancano riferimenti ironicamente autobiografici: Don Nibbio si rivolge a Mongibello, costretto dalla contingenza a cantare: “Bravo davvero; se invece di poeta / ti facevi cantante, / avresti men disturbi e più contante”. Tutti, Popolo, Marinai e Virtuosi, sono in attesa della bella veneziana, cui saranno affidate le sorti dell’opera. I personaggi, escluso il defilato Don Canario, sono a sua completa disposizione per assecondarne ogni capriccio e si arriva presto ad un accordo che soddisfa tutti quanti: ognuno scelga le arie che preferisce, compito del poeta metterle insieme e tessere un canovaccio. Ne scaturiscono scene parodistiche, come quella in cui si giudicano le musiche di Generali, che “non piace”, di Mercadante, “da pochi è conosciuto”, di Cimarosa, Anfossi, Pergolesi, Paisiello: “Son tutti fuori moda“. Col favorito Rossini c’è poco da scherzare: si fa sul serio e si deve cantare.

Nello spazio a dir poco inconsueto di ciò che resta dello storico Teatro Civico, distrutto dai bombardamenti alleati durante l’ultimo conflitto e malamente restaurato” lasciandolo senza tetto, ingombrandone gli spazi con inutili travature e colate di cemento che compromettono la gestibilità del palcoscenico e limitano di molto la capienza del pubblico, l’idea registica di Davide Garattini è comunque vincente.

Coadiuvato dall’affiatato team costituito da Paolo Vitale, cui si deve il fantasioso e divertente impianto scenico e l‘illuminazione, da Giada Masi che ha creato i divertenti costumi, a mezza strada tra ottocento ed epoca umbertina e la coreografa Barbara Palumbo, che ha coordinato i movimenti dei due divertenti mimi-ballerini, i quali a conclusione ed a sorpresa fanno la parte delle sorellastre durante il rondo finale della Cenerentola che conclude l’opera. Nominiamo gli spiritosi Alessandro Lecis e Maurizio Montis. Garattini di “isole”, intese come spazi distribuiti tutt’attorno  l pubblico, ne immagina diverse e con una visione balneare arricchita da una serie di esilaranti animali gonfiabili, cigni, tartarughe e coccodrilli, amenizza e dà un senso al “non sense” della trama a tratti semplicemente delirante. Si canta in barca, in cabina, sulla spiaggia e anche su nel “paradiso”, che sovrasta il palcoscenico e dove abbondano serafiche e bianche nuvolette.

A Garattini va riconosciuto, soprattutto, il merito di avere gestito un coro in visibile e rumoroso esubero, ottemperando ad esigenze… sindacali, che probabilmente nella New York del 1830 non erano nemmeno ipotizzabili. Un controsenso dover muovere in uno spazio così angusto oltre sessanta persone quando per l’economia dell’opera sarebbe bastata una dozzina di coristi maschili. Spostandoli e dividendoli in gruppi il danno è stato limitato; vestendoli come tanti camerieri e cameriere, l’effetto alla fine era pure spiritoso.

Musicalmente le cose sono pure andate molto bene, anche perché nonostante le folate di vento che si aggiravano senza tregua e che certo non hanno favorito né la scna né i solisti, l’acustica vuoi pure per lo spazio ridotto, è risultata ottima. E così si è apprezzata e molto la direzione del giovanissimo Maestro Alessandro Palumbo che, a capo dell’esuberante orchestra del Teatro Lirico cagliaritano, ha fornito un’ottima prova, sia per il sostegno alle voci, sia soprattutto per la chiarezza espositiva e e sicurezza con cui ha restiutito alla “piece” tutta la dirompente freschezza. Sulla scena la parte dei mattatori l’hanno fatta due giovani talenti, il basso buffo Salvatore Salvaggio, esilarante Don Nibbio e Daniele Terenzi, nel ruolo del Poeta Mongibello: il culmine della loro bravura lo si è avuto nel duetto tra Don Magnifico e Dandini, tratto dalla Cenerentola. Convincenti soprattutto per la caratterizzazione che ne fa un’ironica caricatura di due “virtuosi”, sia il mezzosoprano Beatrice Mezzanotte, Lucinda, che il tenore brasiliano Anibal Mancini, nella parte di Narciso, cui spetta nientemeno che il ruolo di Assur, trasportato dalla tonalità di basso!, nella Semiramide e quindi deve cantare l’aria di Lindoro del Barbiere in quinta, mentre Mongibello ne mima i movimenti con le labbra, Altra idea carina di Garattini che ha molto divertito il pubblico.

Lo spettacolo, infine, girerà per la Sardegna: a Dolianova, sul Sagrato della Cattedrale di San Pantaleo, a Burini, nell’Area Archeologica Su Nuraxi ed ancora in altrelocalità per tutto il mese di luglio. Poi dovrebbe approdare pure sulle rive dell’Hudson, come del resto ha già fatto La campana sommersa di Respighi e farà La fanciulla del West che aprirà la prossima satgione cagliaritana, costituendo, così, le tre campate di un ponte con New York, dove tutte e tre le opere ebbero origine

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