TEATRO ALLA SCALA: Il Pirata, 29 giugno 2018

TEATRO ALLA SCALA: Il Pirata, 29 giugno 2018

IL PIRATA

Melodramma in due atti

Libretto di Felice Romani

(Editore Casa Ricordi, Milano)

Musica di VINCENZO BELLINI

Prima rappresentazione assoluta:

Milano, Teatro alla Scala, 27 ottobre 1827

Nuova produzione Teatro alla Scala

In coproduzione con il Teatro Real di Madrid e la San Francisco Opera

 

Direttore RICCARDO FRIZZA

Regia EMILIO SAGI

Personaggi e Interpreti:

  • Imogene  Sonya Yoncheva / Roberta Mantegna (14, 19 luglio)
  • Gualtiero Piero Pretti
  • Ernesto Nicola Alaimo
  • Itulbo Francesco Pittari
  • Goffredo Riccardo Fassi
  • Adele Marina de Liso

Scene DANIEL BIANCO

Costumi PEPA OJANGUREN

Luci ALBERT FAURA

CORO E ORCHESTRA DEL TEATRO ALLA SCALA

Maestro del Coro BRUNO CASONI


Dopo sessant’anni torna Il Pirata alla Scala ed è subito… gazzara. Prevedibile ed in parte organizzata e facinorosa: le ire funeste di parte del loggione scaligero, dove ormai non salgono i residui “vedovi Callas”, non foss’altro per evidenti limiti dovuti all’età degli eventuali superstiti, ma dove aleggiano senza pace i fantasmi di Rubini, della Méric-Lalande e di Tamburini, non potendo oggettivamente sfogarsi sulla protagonista, la bravissima Sonia Yoncheva, soprano bulgaro dotata di voce, temperamento e presenza superlativi, hanno trovato sfogo ed in rapida sucessione alla ribalta finale, sul baritono Nicola Alaimo, sul direttore Riccardo Frizza e sui componenti la parte visiva – l’allestimento, ricordiamolo, nasce da una coproduzione con il Teatro Real di Madrid e con la San Francisco Opera – il regista Emilio Sagi, lo scenografo Daniel Bianco, la costumista Pepa Ojanguren ed il datore di  luci Albert Faura.

Come sempre, specie per chi magari sia all’ascolto per radio, la contestazione ha un’eco spropositato rispetto alla realtà dei fatti. Seppure queste non passeranno alla Storia come le cinque recite del maggio 1958, non foss’altro per il gesto imperioso della Callas a fine opera quando indicò nel “palco funesto” il sovrintendente, nemmeno meritavano tutto questo clamore e men che meno il grido isolatissimo “vergogna” ripetuto più volte da una sola anima… candida.

Iniziamo dallo spettacolo che, nella sua decorosa neutralità, appartieme al genere definito “non disturba”, ma che in defintiva non accontenta nessuno. La scena unica, giocata con grandi specchi di cui quello enorme sul fondo basculante e quando sollevato apre la visione su un bosco innevato di betulle che potrebbe andar benissimo per l’aria di Lensky nell’Onieghin, si presenta come contenitore di una storia in cui, risaputamente, dal punto di vista dell’azione non avviene nulla. Sagi ne ricava un dramma borghese, giocando per quel che si può sulla psicologia dei personaggi e riservando ad Imogene il ruolo di autentica protagonista ed ago della bilancia drammatica che poi è il nocciolo del melodramma anche e soprattutto per quanto riguarda la parte squisitamente musicale.

In tal senso, superato l’imbarazzo dei costumi femminili della prima scena, una sorta di “l’anno scorso a Marienbad” in crinoline bianche tipo abito da sposa riciclato alle prese col servizio per il the, lo spettacolo è andato in crescita e nel finale, alla presenza della poranima del Duca Ernesto steso sul sarcofago prima per la grande scena di Gualtiero e poi avvolto dalle grisaglie di Imogene, ha raggiunto la necessaria tensione emotiva e teatrale. Buhatissimi, ok. Ma alla Scala è passato di peggio tra applausi e viva.

Idem per Nicola Alaimo, che è stato colto di sorpresa dalle grida loggionistiche. Ora che la parte del Duca di Caldara non gli calzi come un guanto, a differenza di Falstaff per fare un esempio limpido e chiaro, ci sta. Ci sta pure che l’abito di generale in riposo, non renda un favore ad una corporatura massiccia, e aggiungiamo quel pizzico di adrenalina che alle volte fa brutti scherzi. Però ha cantato con misura e nobiltà una parte che molto spesso – e cioè le rare volte che la si è sentita in teatro – da luogo ad atteggiamenti “villain” quando non a grida becere. Che Alaimo sappia stilisticamente cosa sia il Belcanto è fuori dubbio e, comunque, ha cantato assai bene seppure a momenti sovrastato dall’orchestra e dal suono veeemente degli altri due solisti. Alla radio, addirittura, mi si garantisce da fonti attendibili, è risultato il migliore. Sicchè… dalle repliche sarà un successo.

Nell’ordine dei “buati” rientra pure la direzione di Riccardo Frizza. Alcuni gli hanno rimproverato dei tempi troppo rapidi, altri troppo lenti; alcuni mancanza di tensione, altri un ritmo più adatto all’opera buffa. Mettiamoci d’accordo. In teatro è parso un direttore dal gesto sicuro, che ha tenuto sempre salde le righe specie negli assieme che concludono il primo atto, e ha dato sostegno ideale alle voci ed al palcoscenico. In un’opera dalle “melodie lunghe lunghe” non si può pretendere di più. E anzi c’era pure il colore notturno, specie nel secondo atto, che anticipa la “tinta” verdiana già nel 1827 e quell’enfasi dei cori che non passò certo innosservata a Wagner per il suo Olandese volante. Si aggiunga la riapertura dei tagli: forse il suo “peccato veniale” è stato quello di rimproverare ai predecessori l’uso generoso delle… forbici. Anche qui, valli a capire quelli che hanno deciso per il pollice verso.

E veniamo ai due incontrastati trionfatori della serata: in primis il tenore Piero Pretti, voce squillante e sicura, abile fraseggiatore, bel temperamento ottima resa scenica. Se all’inzio un minimo inciampo sulle agilità della cabaletta poteva ombreggiare la prestazione, questa si è riscattata in corso d’opera con un’interpretazione fiammeggiante e con una scena conclusiva di straordinaria resa musicale e vocale.Bravissimo. Che poi nel “toto voci” ci sia chi faccia l’elenco di alri possibili Gualtieri ci sta, ma quello di Pretti, specie in corso di replica, è destinato a primeggiare.

Infine lei, la Yoncheva, accusata di “callaseggiare”. Ebbene, sì. Ma con che risultato! Sia visivo, per la bellissima presenza messa in risalto dagli ultimi due costumi preziosi, sia per la vocalità imperiosa, piena ricca e ben proiettata in acuto. “Della Callas copia i difetti” si è detto, ma per favore… PER FAVORE!!! La scena finale ha letteralmente scardinato ogni possibile pregiudizio ed il teatro è esploso in un urlo unanime di “brava”, al punto che chi aveva il fischietto in tasca si è guardato bene dall’estrarlo. E con ciò si dice tutto. Brava? Bravissima. Imperfetta? Magari lo fossero tutte così!

Detto dell’ottimo lavoro di Bruno Casoni con lo splendido coro e dell’ottima prova dell’orchestra si concluda citando il resto del cast, completato molto dignitosamente dall’Itulbo del tenore salernitano Francesco Pittari, ldalla accorata e presente Adele del mezzosoprano Marina De Liso e l’aitante, e dal molto promettente, basso Riccardo Fassi nella parte di Goffredo, il Solitario. Un elemento, che come si è scritto per il precedente Don Basilio nel Barbiere canarino, non va perso d’occhio.

Andrea Merli

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