TEATRO ALLA SCALA: Francesca da Rimini, 15 aprile 2018

TEATRO ALLA SCALA: Francesca da Rimini, 15 aprile 2018

FRANCESCA DA RIMINI

 Tragedia in quattro atti

Libretto di Tito Ricordi

Musica di RICCARDO ZANDONAI

  (Editore Casa Ricordi, Milano)

Prima rappresentazione assoluta: Torino, Teatro Regio, 19 febbraio 1914

 Nuova produzione Teatro alla Scala

Direttore FABIO LUISI

Regia DAVID POUNTNEY

 

Personaggi e interpreti principali

  • Francesca Maria José Siri
  • Paolo il bello Marcelo Puente
  • Giovanni lo sciancato Gabriele Viviani
  • Malatestino dall’Occhio Luciano Ganci
  • Samaritana Alisa Kolosova

 

Scene LESLIE TRAVERS

Costumi MARIE-JEANNE LECCA

Coreografia DENNI SAYERS

Luci FABRICE KEBOUR

CORO E ORCHESTRA DEL TEATRO ALLA SCALA

Maestro del Coro BRUNO CASONI


Torna dopo 59 anni alla Scala Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai e il primo commento è… era ora! Che l’opera sia un capolavoro assoluto se ne può discutere. Personalmente mi piace e molto anche perché, nel corso della mia ormai lunga vita impiccionesca, ne ho potuto vedere ben due edizioni – una a Trieste negli anni Settanta e l’altra a Palermo alla fine degli anni ottanta dello scorso secolo, protagonista Raina Kabaivanska – non solo e non tanto per l’argomento universale tratto dalla tragedia di D’Annunzio, ridotto da Tito Ricordi per la versione operistica, che nel libretto oltre a versi ispirati conserva la verbosità ricca di neologismi cara al Vate e nelle cui didascalie ci si trattiene ad elencare meticolosamente pure la natura delle stoffe che compongono i drappeggi delle tende, quanto e soprattutto per la musica, a tratti ispiratissima, per la ricca e sapiente orchestrazione. Zandonai rappresenterà per alcuni un wagnerismo “casereccio”, ma ha un suo innegabile fascino, sensualità e risulta avvincente. La presenza di questo titolo dovrebbe essere una costante nei nostri teatri.

Certo si pone il problema dell’esecuzione musicale ed interpretativa. Alla Scala in tal senso le cose si sono condotte nel miglior modo possibile, tenendo conto delle attuali forze in campo. E così si inizi con la prova superlativa dell’orchestra, condotta con sicuro polso, ma anche con enfasi laddove richiesta e una gran dose di fantasia, dal Maestro Fabio Luisi, che dello spartito ha tratto tutte le bellezze sia timbriche che melodiche, senza rinunciare alla trasparenza, limpidezza delle pagine sognanti, specie negli incontri tra i due protagonisti, laddove si raggiunge un’aura debussyana; men che meno nelle scene concitate: per esempio il tremendo finale secondo, in Scala la fine della prima parte dell’opera eseguita – molto opportunamente – con un solo intervallo. Di pari merito il lavoro del coro, come sempre perfettamente istruito da Bruno Casoni. Nel cast, in assenza di una Diva della tempra di una Olivero o di una Kabaivanska, le uniche potevano reincarnare la Duse anche con una recitazione sopra le righe, e soprattutto maestre della parola cantata senza possibilità di paragone, Maria José Siri ci dona una cantabilità di soave femminilità, a tratti indifesa e sbigottita, altre imperiosa ed incisiva, ma con un gusto assolutamente moderno ed attuale. La sua Francesca rimane esempio di canto alato, senza forzature e senza eccessi veristicheggianti; ne coglie le sfumature poetiche e dà un significato anche alle pause nell’esposizione della frase. Al suo fianco, in sostituzione del previsto Roberto Aronica, abbiamo apprezzato il tenore argentino Marcelo Puente che, oltre alla prestante figura idonea al ruolo di Paolo il Bello, ha garantito una esatta linea musicale, sebbene il timbro risulti inficiato a tratti dal vibrato e gli acuti suonino a volte un po‘ indietro. Ma sa cantar piano, risulta espressivo e comunque ha salvato la recita. Ottimi per contro i due fratelli “cattivi”: Giovanni lo Sciancato, Gianciotto, che nel baritono Gabriele Viviani ha trovato l’interprete ideale sia per l’insistita ruvidità vocale (imposta dallo spartito, si badi) che per la assoluta aderenza scenica, e Malatestino dall’Occhio, finalmente cantato con una voce “vera” e non affidato ad un “carattere”, come è capitato di sentire in passato, nella voce squillante di Luciano Ganci, perfetto pure nella melliflua e al tempo stesso crudele, interpretazione. Della lunga sequenza di ruoli di fianco, è piaciuto molto il Giullare cantato benissimo dal baritono Elia Fabian., che la regia propone come maestro di pittura confondendo la gonnella con il pennello ed infine lo vuole ucciso con un colpo di rivoltella. Con lui apprezzabili nel primo atto Costantino Finucci e Matteo Desole, rispettivamente Ostasio e Ser Toldo. Ottima Samaritana Alisa Kolosova, bamboleggiante con un enorme pelouche a forma di ippogrifo, e lodevole per precisione musicale varietà timbrica la lista delle damigelle, che nel secondo atto si presentano in divisa di ausiliarie della prima guerra mondiale: Sara Rossini, Biancofiore, Valentina Boi, Garsenda, Diana Haller, Altichiara, Alessia Nadin, Adonella ed infine la schiava Smaragdi intonata da Idunnu Munch.

Resta da dire della nuova produzione: regia di David Pountney, scene di Leslie Travers, costumi di Marie-Jeanne Lecca, luci di Fabrice Kebour e coreografia di Denni Sayers, accolta da un successo incontrastato. Si trascura completamente l’ambientazione “duecentesca” e proditoriamente ci si allontana dalle didascalie del libretto, che renderebbero oggi come oggi l’opera di difficile esecuzione, e si opta per sottolineare di D’Annunzio l’aspetto guerrafondaio e di donnaiolo. Il primo può essere sintetizzato nella costruzione di un’imponente e movibile torre scenica arricchita da cannoni, evidenti simboli fallici tra cui nel centro l’enorme e temibile Grande Berta della prima guerra mondiale, che addirittura sparano a salve a fine atto secondo, e nella presenza di un aereo a sottintendere il volantinaggio operato su Vienna dall’intrepido Interventista. La seconda, meno a fuoco nell’imponente scultura femminile trafitta dalle lance; soprattutto penalizzata da costumi francamente brutti, specie quelli delle donne fatta salva la figurazione. La protagonista ci si  presenta spettinata e sciatta in sottogonna per quasi tutto il corso d’opera. La regia non l’ha nemmeno favorita nei movimenti scenici, rasentando il grottesco quando si accoppia sul letto, cosituito da un enorme libro “galeotto“, con Paolo, a sua volta paludato con il “solito” cappottone. L’opera, la cui prima si diede a Torino il 19 febbraio del 1914, rappresenta il culmine dello stile Liberty nella versione più crepuscolare, ispirato ad una reinterpretazione del medioevo di gran voga soprattutto in campo figurativo. Nulla di tutto ciò si è visto, ben inteso: si è scelta … la via della finestra, con un simbolismo tirato via, tralasciando quello che spartito e testo hanno già di loro, prepotente e personalissimo.

Spettacolo comunque destinato a piacere anche visivamente, e tanto basti.   

Andrea Merli

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