Teatro alla Scala: DON PASQUALE 16 aprile 2018
DON PASQUALE
Dramma buffo in tre atti
Libretto di Giovanni Ruffini
Musica di GAETANO DONIZETTI
(Revisione secondo la partitura autografa di P. Rattalino; Editore Casa Ricordi, Milano)
Prima rappresentazione assoluta: Parigi, Théâtre des Italiens, 3 gennaio 1843
Nuova produzione Teatro alla Scala
Direttore RICCARDO CHAILLY
Regia DAVIDE LIVERMORE
Personaggi e interpreti
- Don Pasquale Ambrogio Maestri
- Norina Rosa Feola
- Ernesto René Barbera
- Malatesta Mattia Olivieri
- Un notaro Andrea Porta
Scene DAVIDE LIVERMORE E GIÒ FORMA
Costumi GIANLUCA FALASCHI
Luci NICOLAS BOVEY
Video design D-WOK
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Maestro del Coro BRUNO CASONI
Torna alla Scala dopo sei anni il capolavoro donizettiano e lo fa in una nuova produzione firmata da Davide Livermore, per la regia ma anche per la scena assieme a Giò Forma, da Gianluca Falaschi per i costumi, da Nicolas Bovey per le luci e dalla società Video Design D-Work per la parte delle proiezioni video che, in questo allestimento, assumono un’importanza decisiva.
La scelta registica di ispirarsi alla cinematografia italiana degli anni d’oro del neo realismo, anche e soprattutto del versante comico e grottesco capeggiato dal Prinsipe de Curtis & C., non giunge del tutto nuova. Anzi, oggi come oggi, un Don Pasquale in crinoline ottocentesche o col jabot settecentesco al collo dei maschietti, parrebbe anacronistico ai più, poiché la commedia – con fondo patetico ed amaro per i destini del protagonista – ha indubbiamente una sua assoluta contemporaneità. Di fatto le edizioni “anni cinquanta” non si contano più sin dai tempi della stupenda edizione andata in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nell’ormai lontano estate del 1975 poi ripresa in Italia ed all’estero, per la regia di Giancarlo Menotti che ci presentò, in anticipo sui tempi, la Roma del caseggiato di “Una giornata particolare” con Ernesto vestito in orbace: ed io c’ero!
Qui, senza andar lungi, il riferimento alla cinematografia è diretto: citazioni di Fellini e della sua “Dolce vita”, ma anche del Visconti di “Bellissima” (Malatesta come Walter Chiari) e così via. Totò è presente, seppure la figura di Ambrogio Maestri risulti l’esatto contrario, con l’onnipresente madre (il film in questione dovrebbe essere “Tutto va bene signora la Marchesa” con la frattura della sedia accompagnata dalla frase “Io soffro!”, ma potrebbe essere pure la zia di “Fifa e arena“ o più genericamente Tina Pica in qualsiasi delle sue infinite partecipazioni) di cui durante la sinfonia si celebrano le esequie e che ci viene mostrata, in un ritratto in bianco e nero che prende vita, per il corso di tutta l’opera come una autentica “guastamestieri” (altro che il nipotino!) fino alla sua resurrezione, in carne ed ossa, alla ribalta finale. Spettacolo gustoso, va detto, accolto giustamente da un successo meritatissimo. Se Livermore pecca, lo fa per eccesso: troppi riferimenti che alla fine distraggono e non poco dalla parte musicale, pure importantissima.
Innanzitutto per la direzione di Riccardo Chailly, specialista ove ne siano, che impone un andamento spinto e ricco nelle dinamiche – qualche sfumatura in più non avrebbe disturbato – della versione Rattalino e che si discosta, in più punti, dalle “normali” esecuzioni di tradizione. Lo spartito viene presentato nella sua totale integrità, ivi compresi i recitativi spesso tagliuzzati, e anche le ripetizioni della cabalette sono variate a dovere, con buona fantasia. In ciò seguito bene dall’orchestra della Scala che forse e per l’occasione andrebbe ridotta dei “raddoppi“, e dal coro sempre puntuale sotto la guida di Bruno Casoni. Alla recita del turno D, comunque, le voci sono pervenute benissimo segno che le dinamiche in corso di recita hanno avuto il necessario aggiustamento e dunque la ripresa TV effettuata in quella serata renderà totale giustizia alla parte musicale esaltandone, ovviamente, quella visiva.
Livermore ha sfruttato al massimo anche la mobilità del nuovo palcoscenico scaligero ed in ciò la sua si può definire assolutamente come una regia “cinematografica”. I costumi di Falaschi, sempre fantasiosi, sono stati molto apprezzati specie nel defilé, con tanto di prezzi in lire, trovata non nuova ma azzeccatissima, della casa di mode gestita da Norina. I video perfetti nelle atmosfere alla Jean Gabin, nebbiose e grige, hanno conferito la patina vintage che è un po’ la sigla di tutta operazione.
Sul versante vocale, Ambrogio Maestri la fa da padrone per la sua straripante e trascinante verve scenica e per la sua vocalità imponente. Il sillabato lo risolve forse più col parlato che col canto, ma in questo contesto ci sta benissimo, anzi, pare più adeguato. Festeggiatissimo alla fine e non poteva essere altrimenti. Bene, benissimo Mattia Olivieri, che la regia vuole incallito tabagista, Dr. Maletesta con tutte le carte in regola, vocali e sceniche. Ottima la Norina di Rosa Feola, piccante e maliziosa come conviene e soprattutto sicura e precisa vocalmente. Non si lancia in sopracuti stratosferici, non previsti del resto, bensì “vola” letteralmente in macchina su Roma e quindi canta il rondò finale dall’altalena della giostra a dieci metri dal suolo: evidentemente non soffre di vertigini. Detto del notaio ladruncolo e lazzarone – altro che cugino Carlotto! – preso su dal pasoliniano “Accattone” e che Andrea Porta esegue con uno spessore interpretativo e vocale fuori dal comune, rimane la sorpresa, per chi firma, costiuita dall’Ernesto di René Barbera, tenore ispano americano, dalla voce particolarmente in punta e facilissima all’acuto: ha chiuso la cabaletta tenendo uno stratosferico Re sovracuto. Il timbro non sarà dei più seducenti, ma canta benissimo, musicalità perfetta, messa a dura prova nella serenata e nel successivo duetto con Norina al terzo atto e fraseggio ottimo. Speriamo di riascoltarlo presto!
Andrea Merli