MILANO: Don Carlo – Teatro alla Scala – 17 gennaio 2017

MILANO: Don Carlo – Teatro alla Scala – 17 gennaio 2017

DON CARLO

Dramma lirico in cinque atti

Libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle

Traduzione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini

Musica di GIUSEPPE VERDI

Edizione integrale della versione in 5 atti, a cura di U. Günther e L. Petazzoni

Editore Casa Ricordi, Milano

Produzione Festival di Salisburgo

 

 

Direttore:  MYUNG-WHUN CHUNG
Regia: PETER STEIN

 

Personaggi e interpreti principali:

  • Don Carlo, Infante di Spagna: Francesco Meli
  • Filippo II, Re di Spagna: Ferruccio Furlanetto
  • Rodrigo, Marchese di Posa: Simone Piazzola
  • Il Grande Inquisitore: Eric Halfvarson (17, 22, 26 genn.), Orlin Anastassov
  • Elisabetta di Valois: Krassimira Stoyanova
  • La Principessa d’Eboli: Ekaterina Semenchuk
  • Tebaldo: Theresa Zisser
  • Un frate: Martin Summer*
  • Conte di Lerma / Araldo reale: Azer Zada*
  • Voce dal cielo: Céline Mellon*

Scene: FERDINAND WÖGERBAUER

Costumi: ANNA MARIA HEINREICH

Luci: JOACHIM BARTH

CORO E ORCHESTRA DEL TEATRO ALLA SCALA

Maestro del Coro: BRUNO CASONI

*Allievi Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala


 

A distanza di poco più di due anni, torna alla Scala il Don Carlo, ma nella versione in cinque atti del 1867. Purtroppo in un allestimento pessimo, un altro tra quelli importati da Salisburgo che costituirono la pietra dello scandalo lanciata dal neo eletto sovrintendente Alexander Pereira. In una parola: brutto, senza possibilità di appello. Brutte le scene di Ferdinand Wogerbauer, contro cui pare abbia ripetutamente protestato, ma senza ottenere un risultato, il direttore Myung-Whun Chung perché risultano essere costruite con materiale fonoassorbente: il ché in una sala risaputamente con un’acustica periclitante certo non giova. Per giunta alla “prima” le tele erano mal tese, piene di grinze: roba da oratorio. Come del resto la regia di Peter Stein, che si spera concluda così la mediocre trilogia cominciata con il Flauto Magico e seguita con un’Aida dimenticabile, inesistente quando va bene, ridicola spesso, per esempio nel proporre un “trenino” di maschere che si rincorrono su un percorso che sembra quello che si è obbligati a fare negli aeroporti per giungere al metal detector. Illuminazione senza alcun fascino: la firma Joachim Barth. Un po’ meglio i costumi creati da Anna Maria Heinreich, ma anche questi non esenti da incongruenze, come quella di far giungere in pieno e rigido inverno nella foresta di Fontainebleau Elisabetta scollata ed in abito da gala. Per non parlare della sfilata “etnica” durante la scena davanti la cattedrale di Atocha. La strategica soluzione di non far uscire sulla ribalta i responsabili della parte visiva è parsa molto opportuna poiché ci ha risparmiato una molto probabile bordata di fischi e buh assolutamente condivisibili.
Inspiegabili, piuttosto, quelli che hanno sottolineato l’esecuzione dell’aria “O don fatale” e che sono piombati in mezzo ad applausi e grida di “brava”. Sinceramente una reazione spropositata nei confronti della validissima Eboli di Ekaterina Semenchuk, che poi nei ringraziamenti finali è stata, comunque e per fortuna, accolta da generosi e convinti applausi. La sua prestazione, infatti, si è inserita benissimo in un’esecuzione che ha rasentato la perfezione in più punti.
Iniziando dalla ispiratissima direzione di Myung-Whun Chung. Il Maestro koreano riesce sempre ad ottenere il massimo dai complessi scaligeri. Ancora una volta l’orchestra ha suonato ai sui massimi livelli dimostrando che, specie nel repertorio italiano e con Verdi, non ha rivali. Ottimo anche il coro, istruito come sempre dal Maestro Bruno Casoni. Una lettura intimistica nei frequenti passaggi in cui è messa in luce la psicologia dei personaggi, i duetti tra Carlo ed Elisabetta per esempio, ma anche nell’incontro tra Filippo e Rodrigo e poi, più marcata, con un colore quasi wagneriano nello scontro tra il Re ed il Grand Inquisitore, sorta di Fafner verdiano qui più che mai. Grande coesione nelle scene d’assieme ed enfasi misurata là dove necessario. Chung ha ricevuto l’ovazione più insistita.
Ma tutti sono stati festeggiatissimi. Iniziando dai deputati fiamminghi, assai ben amalgamati per colore e musicalità: Gustavo Castillo, Rocco Cavalluzzi, Dongho Kim,Viktor Sporyehev, Chen Lingjie e Paolo Ingrasciotta, solisti dell’Accademia di Perfezionamento della Scala. Così pure lo squillante Conte di Lerma e pure Araldo reale del tenore azerbagiano Azer Zada, dalla bella voce brunita, la lirica e suadente Una voce dal cielo del soprano Céline Mellon e, particolarmente in risalto anche per l’importanza della parte, il basso Martin Summer dalla voce potente e timbrata, nei panni del Frate che poi si rivela essere Carlo V vestito come un cioccolatino Rocher dalla fantasiosa costumista. Pungente vocalmente, ma efficace il soprano Theresa Zisser, Tebaldo, della Semenchuk si è in parte anticipato. La sua Eboli ha un pregevole risalto vocale con facilità all’acuto, ed è completata da una interpretazione notevole per veemenza e trasporto. Così pure il trentunenne baritono Simone Piazzola non ha certo una voce oceanica e, diciamola tutta, le sue prestazioni si apprezzano di più in spazi acustici meno dispersivi. Non di meno ha siglato un Marchese di Posa a dir poco commovente nella scena del carcere, cantato con una nobiltà ammirevole, con morbidezza e dolcezza nel fraseggio che, comunque, ha una sua precisa autorità. Si aggiunga il guadagnato aspetto fisico, è dimagrito di circa 60 chili!, che col trucco di scena ne fa un credibile, baldo e giovane, compagno del protagonista Carlo. Qui abbiamo avuto la riconferma dell’evoluzione vocale ed interpretativa di Francesco Meli, perfetto nel suo apparire innamorato e fremente, con un controllo delle dinamiche che spazia dalla mezza voce al fortissimo e, soprattutto, con una percezione della parola cantata, di cui si intende ogni sillaba, di alta scuola. Chi ha dominato in tal senso è stato il veterano Ferruccio Furlanetto, parso in smagliante forma vocale, che ha siglato un “Ella giammai m’amò” da brivido, con una mestizia e dolore palpabili nel canto, ma dimostrando tutta la sua autorevolezza di autentico basso, letteralmente scolpendo la parola scenica. Memorabile in ogni scena, pure nello scontro con il Grande Inquisitore che ha trovato nel basso statunitense Eric Halfvarson un interprete all’altezza del ruolo, soprattutto tenendo conto che sostituiva l’indisposto Orlin Anastassov.
Infine Krassimira Stoyanova, ammiratissima e pure assai applaudita dopo l’esecuzione di quel tremendo tour de force che a fine d’opera, dopo cinque ore che si sta in scena, è costituito dall’aria “Tu che le vanità”. La squisita liricità del suo canto, il saper dosare la voce in pianissimi eterei soprattutto felici e paradisiaci nel settore acuto, le fa superare alla grande una parte che, in più punti, richiederebbe una voce più drammatica. L’intelligenza dell’artista, però, si vede proprio in questi frangenti, dove canta senza mai tradire e forzare la sua voce. Una Elisabetta amorevole, materna ed innamorata, ma pure assolutamente consapevole del suo ruolo e delle sue responsabilità. Personaggio dolente, ma luminoso nel contempo. In una parola: bravissima!

Andrea Merli

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