Genova:  MARIA STUARDA – Gaetano Donizetti

Genova: MARIA STUARDA – Gaetano Donizetti

tragedia lirica in due atti
libretto di Giuseppe Bardari
musica di Gaetano Donizetti
Allestimento in coproduzione tra Fondazione Teatro Carlo Felice e Fondazione Teatro Regio di Parma

Direttore d’Orchestra, Andriy Yurkevych

Regia, Alfonso Antoniozzi
Assistente alla regia, Sergio Paladino

personaggi e interpreti:

  • Maria Stuarda, regina di Scozia: Elena Mosuc, Desirée Rancatore
  • Elisabetta, regina d’Inghilterra: Silvia Tro Santafe, Elena Belfiore
  • Roberto, conte di Leicester: Celso Albelo, Giulio Pelligra
  • Giorgio Talbot: Andrea Concetti
  • Lord Guglielmo Cecil: Stefano Antonucci
  • Anna Kennedy: Alessandra Palomba

Scene, Monica Manganelli
Costumi, Gianluca Falaschi
Assistente ai costumi, Anna Missaglia
Luci, Luciano Novelli

Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro, Franco Sebastiani


Con Maria Stuarda si completa il ciclo della donizettiana “trilogia Tudor”, che in realà sarebbe una “tetralogia” se si abbinasse la meno eseguita Elisabetta al Castello di Kenilworth, portato felicemente a termine con un intelligente progetto che ha accomunato per i tre titoli gli sforzi congiunti di regista, scenografo (scenografa nello specifico) e costumista: nell’ordine Alfonso Antoniozzi, Monica Manganelli e Gianluca Falaschi. A conti fatti si può esserne non solo soddisfatti, ma orgogliosi in quanto italiani e, teoricamente, detentori della specialità culturale che più ci rappresenta ed appartiene nel mondo, dell’ottimo risultato che accomuna nell’economia risicata del nostro Bel Paese, sempre e comunque restio ad investire in tal senso, e delle casse non proprio opipare del Teatro Carlo Felice, una produzione che dovrebbe servire da esempio di alta risoluzione artistica, coerenza teatrale e aderenza alla musica ed al testo, sia da un punto di vista scenico che musicale.

Il pistolotto iniziale non vuole essere il dito dietro cui nascondersi: non convinse del tutto la precedente Anna Bolena, accolta alla “prima” (dalla seconda recita in poi fu un conclamato trionfo) dal furente pubblico del Teatro Regio di Parma che vi giunse per altro con una buona dose di pregiudizio (non dimentichiamo l’episodio vissuto da Antoniozzi al ristorante, dove fu apostrofato da una damazza locale con toni di minaccia “Badi che se non ci piace noi fischiamo”, quando ancora si era in prova) e che si dimostrò, sostanzialmente, intollerante, aggettivo che oggi va di gran moda.

Il perché fu oggetto della precedente impiccionesca recensione: forse che la Bolena sia drammaturgicamente la meno riuscita, forse ci si volle spingere in una interpretazione che il locale pubblico, ultraconservatore, non voleva (o poteva) capire, forse che dopo il riuscitissimo Devereux in effetti ci si aspettava quel “qualcosa di più” che, anche per motivi di spazio del palcoscenico e di denaro, non si potè oggettivamente realizzare.

Scurdammoce ’o passato e veniamo a noi: la Stuarda, indubbiamente, è quella più “mossa” delle tre, anche perché due donne che si azzuffano (eccome poi!) fan sempre cassetta: qui poi son due regine!

Ma per chi conosce, o presume di conoscere, l’elemento umano si è intravisto in questa ultima – e splendida lo dico subito – realizzazione una sorta di rivalsa, se non proprio vendetta. Dite che non sono capace di fare spettacoli storico-tradizionali? Datemi i soldi (e gli spazi) necessari e vi dimostro che al confronto Zeffirelli e Hugo De Ana sono dei dilettanti (per carità, non fraintendiamo, i nomi dei due registi li ho fatti io) volete un teatro “di conservazione”, eccovelo, ma dichiaratamente e proditoriamente “finto”. E qui sta l’intelligenza sottile, e diciamola tutta un po’ diabolica e molto sarcastica, del Sor Alfonso. L’impianto scenico è sempre quello, una pedana articolata sovrastata da elelementi Tudor, ovviamente, ma mobili. La regia ci fa capire con un sottile e sottinteso gioco di teatro nel teatro, che le due prime donne stanno sì in due camerini all’opposto, ma nella realtà sono due ottime amiche che si scambiano l’in bocca al lupo e si baciano prima di entrare in scena e che all’occorrenza si prestano l’una il fard e l’altra il rimmel. Poi in scena, ma in posizione defilata, tutti: attrezzisti, trucco e parrucco, le sarte che raddrizzano la coda della veste prima dell’entrata in scena mentre altre ripassano con la spazzola i capelli. La regia? E’ quella che ci si aspetta, sia nei movimenti del coro che nell’interazione tra i protagonisti. Esasperata però dai costumi, imponenti e bellissimi del Falaschi che qui si è sbizzarrito reinterpretando un “Capucci alla maniera di” specie per i maschietti, Leicester e Talbot (Cecil una sorta di cardinalizio Richelieu) con una fantasia sfrenata, ma dominata perfettamente negli accostamenti cromatici ed impreziosita da dei dipinti a mano sulla tela che, da soli, sono un’opera d’arte. E dunque tutto ciò ha soddisfatto, sedotto ed alla fine conquistato il pubblico genovese (ed ospite) che alla fine ha decretato un meritato successo a tutti, ivi compreso l‘eccellente datore di luci Luciano Novelli.

Soprattutto, va aggiunto, e pure alla non meno che esaltante compagine musicale. Iniziando dalla bacchetta, in vero eccezionale, di Andriy Yurkevych. Ho la inveterata abitudine, specialmente al Carlo Felice, di non sedermi mai nel posto assegnatomi dal per altro efficentissimo e gentilissimo ufficio stampa nella persona squisita di Marina Chiappa. Per motivi intuibilmente impiccioneschi appena posso mi sposto nella prima fila, anche per poter gustare da vicino la mimica degli artisti. In questo caso ero proprio seduto dietro al direttore e ne ho potuto apprezzare il gesto. Sono rimasto incantato da come seguiva, per fare un esempio, le evoluzioni in pianissimo delle protagonista, quasi a cantare fosse lui. Ma poi tutto funzionava, sia negli “assieme” che nel mantenere alto il senso del teatro ed il ritmo. In ciò seguito anche dall’ottime masse del Carlo Felice, orchestra e coro, questo affidato alle cure di Franco Sebastiani.

E passiamo alle voci: purtroppo non si è potuti fermare per le recite del secondo cast, dove debuttava tra gli altri la Rancatore e a quanto si narra con esito assai felice. Ma certo è che Elena Mosuc, che frequenta il personaggio della sfortunata Maria da un bel po’ di tempo -iniziando da alcune recite berlinesi di oltre un lustro fa- ha fornito una prova maiuscola al suo debutto di ruolo su suolo italico. Giunta alla completa maturità artistica, in una parte che richiede sì veemenza e temperamento, ma pure un canto di agilità di primordine, ha dimostrato cosa possano tecnica, voce ed interpretazione al servizio della musica e della scena in maniera inequivocabile. Salutata da ripetuti applausi ad ogni conclusione di pezzo chiuso, ha siglato un “figlia impura di Bolena” decisivo, senza scadere nella volgarità e rimanendo conscia del proprio rango di regina pur nella spietata durezza dei termini. Infine nel prolisso finale, eseguito senza sconti e senza tagli, ha dato sfogo ad un canto alato e commovente. Trionfo, dunque, e meritatissimo.

Non meno successo ha accolto la bravissima Elisabetta di Silvia Tro Santafé. Assolutamente al pari per aderenza vocale al personaggio, che richiede un mezzosoprano acuto e che, per certi versi potrebbe rendersi intercambiabile con quello della protagonista “rivale”, ha però caratterizzato con un suono corposo e pieno la differenza che intercorre tra le due donne, che il Bardari librettista, ma soprattutto il Donizetti, ci dipingono l’una più sognante e lirica, l’altra più determinata e volubile. Una esecuzione, quella della Tro Santafé che ha sorpreso per la forte interpretazione e la splendida esecuzione anche chi la conosce a la apprezza da tempo.

Da tempo si conosce ed apprezza Celso Albelo, uno dei “nipotini” a me più cari e per il quale nutro oltre e più che la stima un sincero affetto. A tanto amore corrisponde una vocalità solare e bella, un’estensione notevolissima, una precisione ed aderenza al testo ammirevole ed una personalità nella voce che ogni giorno di più si allontana dall’insuperabile modello canario che, evidentemente, lo ha ispirato per conquistare un’indiscutibile personalità, per altro in un repertorio che Alfredo Kraus non ha (portroppo) frequentato. Poteva risultare impacciato nel voluminoso costume azzurro ideato da Falaschi, ma invece lo ha gestito con grande sicurezza. La regia lo ha voluto amoroso e anche in ciò si è temuto più volte e con buona pace della moglie, che i baci a Maria Stuarda fossero autentici. Bravo, bravissimo!

Disporre di Andrea Concetti e di Stefano Antonucci per i ruoli di fianco, ma certo non secondari, di Talbot e Cecil è stato, come si dice in Spagna, “un lujo asiatico” e così pure è piaciuta la partecipazione di Alessandra Palomba nei panni di Anna Kennedy, la quale ha di ché cantare ed esporsi non solo nei recitativi, ma soprattutto nei concertati.

Pubblico non numerosissimo – ahia – ma esaltato e prodigo in continue chiamate. E soprattutto facce felici al Carlo Felice, anche a livello della dirigenza oltre che delle maestranze tutte. Una realtà che dovrebbe essere palese ai nostri politicanti. Ma si sa, mala tempora currunt.

Andrea Merli

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