TEATRO ALLA SCALA: L’amore dei tre Re – Italo Montemezzi, 3 novembre 2023

TEATRO ALLA SCALA: L’amore dei tre Re – Italo Montemezzi, 3 novembre 2023

L’AMORE DEI TRE RE

Italo Montemezzi

Poema tragico in tre atti

Libretto di Sem Benelli


Direttore Pinchas Steinberg 
Regia Àlex Ollé / La Fura del Baus 

 

Personaggi e Interpreti:

  • Archibaldo Evgeny Stavinsky
  • Manfredo Roman Burdenko
  • Avito Giorgio Berrugi
  • Flaminio Giorgio Misseri
  • Un giovanetto Andrea Tanzillo*
  • Un fanciullo  Giulia Fieramonte**
  • Fiora Chiara Isotton
  • Ancella Fan Zhou*
  • Giovanetta Flavia Scarlatti 
  • Una vecchia Marzia Castellini

Scene Alfons Flores 
Costumi Lluc Castells 
Luci Marco Filibeck 

*Allievi dell’Accademia Teatro alla Scala
**Allievi Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala

Nuova produzione Teatro alla Scala

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala

 

Teatro alla Scala, 3 novembre 2023


Programmata per la stagione 2020, sospesa a causa della pandemia, L’amore dei tre re, è l’unica opera di Italo Montemezzi (1871-1953) rimasta in repertorio; debuttò al Teatro alla Scala il 10 aprile 1913 ed ora ritorna dopo 70 anni di assenza. Troppi – scarse pure le riprese italiane: al Teatro Filarmonico di Verona nel gennaio del 1991 e al Teatro Regio di Torino nell’aprile del 2005 – per un autentico capolavoro che ha goduto a suo tempo le attenzioni di Toscanini e di un’infinità di artisti, soprattutto le “dive” Lucrezia Bori, Rosa Ponselle e Claudia Muzio, ma fu molto amata anche dai bassi: José Mardones ed Ezio Pinza, tra gli altri.

Il libretto di Sem Benelli, che a Umberto Giordano porse pure la sua tragedia La cena delle beffe, è un “noir” decadente ed erotico, ambientato nell’Italia medievale. Un testo ampolloso, ricco di metafore, alcune in vero molto esplicite per esempio quella della “bocca” che, in quest’opera, è motivo di piacere e di morte, molto nello stile dell’epoca dettato dal “Vate” Gabriele D’Annunzio, cui si deve Parisina, musicata da Mascagni e Francesca da Rimini, composta da Zandonai. Potremmo considerarle una “triade femminile” in aperto contrasto con il Verismo delle varie Santuzza, Nedda e compagnia bella, ma anche con la maggior parte delle eroine di Puccini, tolta in parte la bigotta Tosca, di cui Montemezzi è comunque debitore. L’innegabile “wagnerismo”, come del resto quello di Antonio Smareglia, altro compositore che cercò un nuovo percorso musicale, qui si tinge pure di sfumature francesi – l’esempio è, chiaramente, il Debussy del Pelleas et Melisande – e risente anche di quella Salome da poco andata in scena alla Scala

La lettura che ha offerto il direttore israeliano Pinchas Steinberg, all’esordio con un’opera alla Scala, è parsa esemplare. L’orchestra scaligera ha brillato ancora una volta gettandosi a capofitto in questo turgido sinfonismo, che a tratti si impone sul canto trattato quasi fosse “Sprechgesang” senza formule “chiuse”, sebbene nel secondo atto l’ampio duetto d’amore tra soprano e tenore suggerisca un  Tristano e Isotta all’italiana. Tutte le sfumature e i sentimenti, il lirismo decadente, l’impeto erotico, si sono sviluppati in suggestive pennellate musicali, che hanno entusiasmato il pubblico, il quale gli ha decretato un’accoglienza trionfale.

Il cast è stato dominato dalla magnifica Fiora del soprano bellunese Chiara Isotton. Linea di canto impeccabile, voce vellutata, omogenea, brillante e fluida nelle note alte, interprete di grande sensibilità e veemenza allo stesso tempo. La Scala le ha finalmente offerto la possibilità di interpretare un ruolo alla sua altezza. Bene il baritono Roman Burdenko, lo sfortunato marito e figlio; il tenore Giorgio Berrugi si è molto ben disimpegnato nella parte di Avito, l’amante di Fiora. Per l’imponente personaggio del vecchio re cieco, la cui attrazione e gelosia nei confronti della nuora sono motivo di rivalsa, nel 2020 era previsto Ferruccio Furlanetto; è stata eseguito dal basso russo Evgeny Stavinsky. Non gli si può negare un canto più che corretto, ma la parte richiederebbe una personalità più matura, un senso maggiore della parola cantata, un colore della voce più scuro e grave. Perfetto, invece, per l’importante ruolo di Flaminio, guida al re cieco epperò complice degli amanti, è risultato il valente tenore Giorgio Misseri.

Àlex Ollé e La Fura dels Baus hanno firmato una “non” regia fredda, anonima e senza un’idea originale. La scena è composta da dieci chilometri di catene, un letto ed una piattaforma mobile che dovrebbe rappresentare la torre del castello. Si tratta, purtroppo, un’occasione perduta. Per quest’opera, proprio perché di così rara esecuzione, urge una scena che possa suggerire quel periodo medievale che imperava pure nell’architettura (un esempio: il  castello “falso medievale” in cui Sem Benelli visse a Zoagli in Liguria) e sono necessari dei costumi degni di tal nome, atti a sottolineare l’erotismo decadente che la musica suggerisce. Qui si è raggiunta l’indecenza “vestendo” Fiora, spettinata e scalza, con uno straccio. Peccato.

Andrea Merli

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