PIACENZA: IL CORSARO – Giuseppe Verdi, 4 maggio 2018
Melodramma tragico in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
dal poemetto The Corsair di George Byron
Matteo BELTRAMI, direttore
Lamberto PUGGELLI, regia
ripresa da GRAZIA PULVIRENTI PUGGELLI
Personaggi e interpreti:
- Corrado: Iván Ayón Rivas
- Medora: Serena Gamberoni
- Seid: Simone Piazzola
- Gulnara: Roberta Mantegna
- Selimo: Matteo Mezzaro
- Giovanni: Cristian Saitta
- Un Eunuco/Uno Schiavo: Raffaele Feo
Marco CAPUANA, scene
Vera MARZOT, costumi
Andrea BORELLI, luci
Renzo MUSUMECI GRECO, maestro d’armi
Pier Paolo ZONI, assistente alla regia
ORCHESTRA REGIONALE DELL’EMILIA ROMAGNA
CORO DEL TEATRO MUNICIPALE DI PIACENZA
Corrado CASATI, maestro del coro
Coproduzione
Fondazione Teatri di Piacenza
Fondazione Teatro Comunale di Modena
A conclusione della felicissima stagione al Teatro Municipale di Piacenza, un titolo verdiano degli “anni di galera” , vide la “prima” al Teatro Grande di Trieste il 25 ottobre del 1848, Il Corsaro su libretto del fedele Francesco Maria Piave, tratto dall’omonimo poema di Lord Byron. Massimo Mila fu drastico nel definirla “l’opera più brutta di Verdi” e, del resto, per le vicissitudini del suo iter compositivo comprensivo della frattura con l’editore Lucca, pure lo stesso Autore la considerò un’opera “morta”, né l’accoglienza glaciale del pubblico triestino riportata dalle cronache (eppure la compagnia di canto era prestigiosissima, basti pensare che il Corsaro del titolo era nientemeno che il tenore Gaetano Fraschini) potè garantire una lunga vita sulle scene.
Si dovette aspettare la seconda metà del secolo scorso e, nella fattispecie l’interpretazione della giovanissima Katia Ricciarelli vincitrice del primo concorso televisivo, correva il 1971, con un’esecuzione stupefacente (passata alla storia ed insuperata) dell’aria di Medora: “Non so le tetre immagini”. Il vostro impiccione ai tempi fresco ventenne (in buona compagnia con l’ancor più giovane compagno di università ed avventure operistiche, Rino Alessi) nello stesso Teatro Grande, dedicato a Verdi il giorno appresso alla sua morte e primo al mondo nel fregiarsi col nume dell’opera italiana, nel 1972 ebbe modo di assistere a più repliche del titolo. Medora, appunto, era l’inarrivabile Ricciarelli, a cui un loggionista “melomanemedio” anzi tempo – il compianto Eugenio di Gorizia – ebbe il pessimo gusto di gridare “Voce!”, forse perché i melismi di Medora gli parvero poca cosa di fianco al fiume in piena che supponeva l’ascolto della Gulnara di Angels Gulin, un fenomeno vocale senza pari per ricchezza di armonici. Si ebbe modo così di costatare che l’opera, come tutte quelle di Verdi del resto, è tutt’altro che brutta ed il pubblico triestino rispose, contestazione a parte e dopo oltre cent‘anni, con calore decretando un successo trionfale.
Lo stesso che il pubblico ha riservato a Piacenza ad una recita per molti versi memorabile e ricca di emozioni forti. Lo spettacolo, un allestimento stupendo mutuato dal Teatro Regio di Parma dove ha visto la luce una decina di anni fa, si pregia dei bei costumi di Vera Marzot, della suggestiva scena creata dal dispiegamento di vele sulla tolda della nave, a firma di Marco Capuana e della suggestiva e curatissima illuminazione di Andrea Borelli. Nato con la regia del rimpianto Lamberto Puggelli, nella ripresa curata in ogni minimo dettaglio con estrema fedeltà dalla figlia Grazia Pulvirenti Puggelli, è un vero e proprio omaggio al regista scomparso e, a ragion del vero, si faticherebbe ad immaginare un Corsaro diverso, a questo tanto bene si sposa alla musica l’esposizione di una drammaturgia naif, è vero, ma che affidata a mani inesperte potrebbe sempre correre il rischio di sembrare ridicola. Merito nei movimenti scenici, oltre che del bravissimo coro istruito come sempre alla perfezione da Corrado Casati, soprattutto dell’arte delle armi bianche messa in evidenza con la figurazione dal più valente tra tutti i Maestri, Renzo Musumeci Greco.
Il versante musicale ha destato addirittura l’entusiasmo. La bacchetta di Matteo Beltrami, di cui si è potuto seguire bene pure il gesto da un palco laterale, è da considerarsi tra le più affidabili e non solo nel “primo Verdi” di cui offre una lettura trascinante, “mutiana” nei momenti di gagliardo vigore, ma senza trascurare la “tinta”, quasi sempre lunare e notturna che anticipa Il Trovatore a venire, dei momenti più lirici e nostalgici, specie negli interventi di Medora. Seguito in ciò brillantemente dall’ottima Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna.
Lode, ancora una volta, a Cristina Ferrari a cui quest’anno andrebbe assegnato un premio speciale di pubblico e critica per la scelta dei titoli e, ancor di più, per l’oculatezza e la lungimiranza nel formare i cast. Dopo l’esaltante Gioconda, di cui ancora non si è spenta l’eco, qui, nel Corsaro, la media di età degli esecutori non supera I trenta anni! La gioventù non è sempre garanzia di qualità: qui si è avuta l’eccezione. Iniziando dal debutto del protagonista, il venticinquenne tenore peruviano Ivan Ayon Rivas, che ad una qualità timbrica notevolissima ha sommato una sicurezza invidiabile nell’acuto svettante e squillante, un fraseggio incredibilmente maturo ed una proprietà d’accento stupefacente in un giovane ragazzo straniero. Sarà pure in gran parte merito del suo Maestro, il baritono Roberto Servile, ma qui ci si trova ancora una volta davanti ad un artista che va seguito con la massima attenzione e che ci riserverà delle gratissime sorprese in futuro. Altra sorpresa personale, poiché non la conoscevo affatto, la splendida Gulnara di Roberta Mantegna, un soprano pure ancora poco più che ventenne e dotata di una voce impressionante per armonici e bellezza del colore. Tecnicamente ferrata, è venuta a capo della tremenda parte e di quella impossibile cabaletta con coi Verdi diede fondo al sadismo nel trattare le voci, ma è parsa bravissima anche nei duetti col tenore e col baritono. Questi, seppur ancora giovane, è ormai una nostra cara conoscenza: Simone Piazzola. E’ parso in ottima forma e ha sfoggiato oltre che il ben noto dono di natura e quel timbro autenticamente maschio, ma pure ricco di velluto, una spavalda sicurezza nel lanciare acuti. Si sommino l’autorevole presenza in scena e l’aderenza totale al personaggio e si comprenda così il motivo della accoglienza non meno che trionfale. Successone anche per la Medora di Serena Gamberoni, che la regia giustamente ci presenta diafana e quasi pazza nelle sue determinanti, seppure marginali nell’economia dell’opera, apparizioni. Ed è un vero peccato che librettista e musicista non abbiano approfondito e dato maggior peso alla mesta eroina. La Gamberoni, comunque, ha siglato una preziosa aria di sortita, gareggiando in bravura con l’arpa. E’ stata trepidante nel primo duetto con l’amato Corrado e soprattutto, nel finale, ha toccato l’apice di una immedesimazione ideale. Benissimo pure i ruoli di fianco, specialmente l’ottimo corsaro Giovanni del basso Cristian Saitta, affidati ai tenori Matteo Mezzaro, Selimo e Raffaele Feo, nella doppia parte di Eunuco e Schiavo.
Il teatro, tutto esaurito alla “prima”, ha accolto un pubblico entusiasta; in parte anche proveniente dal resto d’Italia e dall’estero: ormai si è sparsa la voce ed i “melomaniveri” sanno che il viaggio a Piacenza li gratificherà assai più che il recarsi in teatri sulla carta più prestigiosi.
Andrea Merli