MILANO: Orphée et Euridice, Teatro alla Scala 28 febbraio 2018

MILANO: Orphée et Euridice, Teatro alla Scala 28 febbraio 2018

Christoph Willibald Gluck

Prima rappresentazione al Teatro alla Scala nella versione francese

 

Direttore Michele Mariotti
Regia Hofesh Shechter e John Fulljames

 

Personaggi e Interpreti:

  • Orphée Juan Diego Flórez
  • Euridice Christiane Karg
  • L’Amour Fatma Said

Coreografia Hofesh Shechter
Scene e costumi Conor Murphy
Luci Lee Curran riprese da Andrea Giretti

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Produzione Royal Opera House, Covent Garden, London


ORPHéE ET EURIDICE – Christoph Willibald Gluck

Torna l’Orfeo di Gluck alla Scala dopo quasi vent’anni dall’edizione diretta da Riccardo Muti e lo fa nella versione di Parigi del 1774, e dunque per la prima volta in francese con il libretto di Pierre-Louis Moline tratto dall’originale italiano di Ranieri de’ Calzabigi, con cui l’opera debuttò al Burgtheater di Vienna il 5 ottobre del 1762 e che poi si ascoltò la prima volta nella sala del Piermarini il 25 gennaio del 1891 e da lì, in diverse riprese, fino al 1989.

Orphée et Euridice, dunque. La produzione procede dalla Royal Opera House, Covent Garden di Londra, dove è andata in scena nella stagione 2015/16. La regia è firmata a quattro mani da Hofesh Shechter e John Fulljames, con le scene e costumi di Conor Murphy, le luci di Lee Curran (riprese da Andrea Giretti) e soprattutto si avvale della coreografia dello stesso Hofesh Shechter realizzata dalla sua compagnia di 22 ballerini. Molto fumo, è il caso di dirlo visto che se n’è usato pure in abbondanza creando non poche difficoltà all’orchestra posta sul palcoscenico su una pedana mobile in continuo movimento, e poco arrosto come suggerisce il proverbiale motto.

In effetti, gli interpreti in proscenio davanti all’orchestra, il coro in movimento dal fondo scena e la prevaricante azione dei mimi ballerini, non hanno fornito una lettura specificamente significativa del capolavoro, risultando una sorta di oratorio in forma semiscenica, sfociato in un’inevitabile monotonia proprio per l’eccentricità di una danza, dovuta e pretesa dalla versione francese e preponderante nel terzo atto, che pur nella coordinazione dei movimenti e nella bravura degli interpreti, risulta alla lunga ripetitiva e del tutto simile – come ha suggerito una signora seduta a fianco a me in platea – a quella della pubblicità televisiva di un noto operatore telefonico.

La discesa agli inferi è quella di minatori nelle gallerie della miniera illuminata fiocamente da lampade di acetilene; i costumi stracciati e sporchi di carbone, così pure il volto di Orfeo; non quello azzurrino, elegante abito da sera, indossato da Euridice, né tanto meno lo smoking in lamé dorato che veste Amore, che ci si presenta pettinato col ciuffo alla Brachetti; determinante, infine, la presenza della silhouette di Euridice incendiata ben due volte, poiché nel finale Orfeo rimane solo come esige il mito, non certo l’opera.

Viceversa la componente musicale è parsa di grande interesse. Iniziando dalla preziosa, lieve e aerea, direzione di Michele Mariotti, seguito dall’orchestra della Scala con grande partecipazione; se si è inciampati in qualche minimo incidente di percorso, inutile negarlo lo si deve alla reale impossibilità di poter dirigere in condizioni così disagiate. Anzi, è stato doppiamente ammirevole lo sforzo di tutti, compreso il coro istruito come sempre assai bene da Bruno Casoni. E dei tre solisti ben assortiti ed in perfetta sintonia. Le due signore, innanzitutto: tanto la lirica e sognante Euridice del soprano Christiane Karg, dalla voce ben emessa e soave nel canto, quanto l’ottimo Amore interpretato dalla spiritosa ed agile, pure vocalmente, soprano Fatma Said, molto apprezzato dal pubblico che non ha lesinato applausi attardandosi, alla fine, per circa dieci minuti.

Pubblico non numerosissimo, ma partecipe, accorso ça va sans dire soprattutto per Lui, il divo Juan Diego Florez, Orfeo è risaputamente tenore – o meglio, Haute-contre – nella versione francese, che non ha deluso le grandi aspettative. Tutto in lui rasenta la perfezione: la squisita musicalità, la facilità nel canto di agilità e l’estensione, la voce che con il passare degli anni non ha perso smalto in acuto; la figura elegante, la postura scenica sempre appropriata a dispetto di qualsiasi regia, anche quando se ne intenda avvilire la naturale nobiltà e, dulcis in fundo, la superiorità dell’interprete che riesce a catalizzare l’attenzione con innegabile carisma. Un trionfo annunciato, certo, ma meritatissimo e decretato da un pubblico esaltato con punte di comprensibile delirio.

Andrea Merli

 

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