MILANO: DIE FLEDERMAUS, 23 GENNAIO 2018

MILANO: DIE FLEDERMAUS, 23 GENNAIO 2018

Operetta in tre atti

Libretto di Carl Haffner e Richard Genée

(Edizione critica secondo la Johann Strauss Complete Edition di Universal Edition AG e Verlag Doblinger, Wien;

in collaborazione con la Johann-Strauss-Gesellschaft, Wien © 1975; rappr. per l’Italia Casa Ricordi, Milano)

Musica di JOHANN STRAUSS

Prima rappresentazione al Teatro alla Scala

Nuova produzione Teatro alla Scala

 

Direttore CORNELIUS MEISTER

Regia CORNELIUS OBONYA

 

 

Personaggi e interpreti 

  • Rosalinde Eva Mei
  • Adele Daniela Fally
  • Orlofskaya Elena Maximova
  • Gabriel von Eisenstein Peter Sonn
  • Dr. Falke Markus Werba
  • Alfredo Giorgio Berrugi
  • Frank Michael Kraus
  • Dr. Blind Kresimir Spicer
  • Ida  Anna Doris Capitelli
  • Frosch Paolo Rossi                

Co-regista CAROLIN PIENKOS

Scene e costumi HEIKE SCHEELE

Luci FRIEDRICH ROM

Coreografia HEINZ SPOERLI

Video ALEXANDER SCHERPINK

Coro, Corpo di Ballo e Orchestra del Teatro alla Scala

Maestro del Coro BRUNO CASONI

Direttore del Corpo di Ballo FREDERIC OLIVIERI


Il Pipistrello, a quasi 150 anni dal debutto al Theater an der Wien il 5 aprile del 1874, finalmente approda alla Scala… ed è subito sera. La cronaca di una serata grigia e monotona, quella della terza recita turno A dell’abbonamento, dove alle numerose defezioni di abbonati si sono sommate altrettante ritirate in buon ordine dopo il secondo atto, necessita di alcune considerazioni.

La prima è sull’estraneità, fisica della sala oltre che psicologica e culturale di un pubblico sostanzialmente indifferente all’operetta, che subisce con sussiego e superiorità un genere che non conosce nè comprende. Nelle capitali d’oltralpe, specie in area tedesca, l’operetta ha i suoi cultori, che tra l’altro passano olimpicamente da questa all’opera e viceversa; ha dei teatri – l’an der Wien e la Volksoper, per l’appunto, a Vienna – dove oltre ad essere eseguita ed apprezzata, assieme ai titoli popolari d’opera tradotti nella lingua del Paese, si può realizzare quel clima di complicità e comunicazione tra palcoscenico e pubblico che, ahinoi, alla Scala si è dimostrato sempre assente, pure nella precedente e sfortunata prima edizione de La vedova allegra.

Altro problema, certo non secondario, la versione scelta: si ha un bel dire che le opere si devono eseguire nella lingua originale. Le operette, checché ne pensi una parte del pubblico e quasi tutta la critica allineata, esigono la lingua locale, poiché la parte recitata ha il compito di fornire il tessuto connettivo dell’operetta, assai più di quanto possa rappresentare il recitativo secco nell’opera barocca e negarne la comprensione diretta costituisce un handycap difficilmente risolvibile con la lettura dei sovratitoli e del testo tradotto sul dorso della poltrona come avviene alla Scala. Per fare un esempio, è come se le battute di un copione comico e brillante anziche affidate agli attori specialisti ci fossero consegnate da leggere.

Con queste premesse, che già non depongono bene, il pastrocchio a cui si è assistito è stato disastroso da un punto di vista teatrale. Il canto si è eseguito in tedesco, con buona pace di una traduzione ritmica abbondantemente collaudata; il parlato è stato recitato parte in tedesco, parte in italiano e non si è capito con quale criterio di scelta. Abbiamo avuto così cantanti italiani che recitavano in tedesco, tedeschi che parlavano a momenti in italiano e, ciliegina sulla torta, il personaggio del Principe Orlofsky, che in origine dovrebbe essere un adolescente ricco ed annoiato, un mezzosoprano en travesti: Elena Zilio nel tempo andato ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia, trasformato da programma in un’oligarca russa. Essendo l’interprete russa per davvero, ha recitato in tedesco ed in italiano. A parziale giustificazione si è erroneamente tirato in ballo il “polilinguismo” presente nel libretto. In verità due dei personaggi, Gabriel von Eisenstein, il marito che deve scontare una settimana al fresco (chissà poi perché alla Scala sono diventate otto settimane!) e Frank, il direttore del carcere, si presentano alla festa del secondo atto sotto mentite spoglie. Il primo si spaccia per “le Marquis de Renard” il secondo si presenta come “le Chevalier Chagrin“ e dunque francesi. Da lì i buffi tentativi di parlare tra loro con frasi fatte e luoghi comuni, in una lingua che in realtà non conoscono affatto.

Sulla carta si tratta di una nuova produzione del Teatro alla Scala, ma pare sia la ripresa di uno spettacolo già andato in scena in Austria. Si avvale della regia di Cornelius Obonka, il quale con le scene ed i costumi di Heike Scheele, le luci di Fiederich Rom, la coreografia di Carolin Pinkos ripresa da Heinz Spoerli, trasporta l’azione in epoca contemporanea. Il risultato è che l’operetta, genere di pura evasione che proprio per la futilità ed evanescenza delle sue trame richiede la massima credibilità scenica, ne esce totalmente sconfitta in questa sorta di omologazione alla contemporaneità che ormai ci affligge e che rende tutti gli spettacoli eguali gli uni agli altri, specie laddove manchi una innovativa idea registica.

Qui si perde completamente il profumo di quella Vienna, garbatamente messa alla berlina ironizzando sia sulle velleità del basso ceto e dei borghesi, ma anche sulla futilità dei nobili, dove “beato è chi dimentica ciò che non si può cambiare”. Un allestimento fedele ai tempi ad ai luoghi avrebbe facilitato un fastoso ingresso in Scala del capolavoro assoluto di Strauss; avrebbe reso giustizia pure alla musica che così è parsa svilita in più punti. Nè il corpo di ballo, puntuale e preciso, del teatro ha potuto vitalizzare la sinfonia, in cui ha fatto apparizione. in mezzo alle montagne innevate, pure la coppia di acrobati sulla fune che poi hanno disturbato il momento più nostalgico e sognate dell’operetta, laddove l’immobilità è d’obbligo: il celeberrimo concertato “Bruderlein, Bruderlein und Schwesterlein” che in italiano recita “baciami, dammi del tu” con lo struggente ritornello del “Dudu duidu”, rompendone la magia. Inoltre, la banalizzazione dei costumi contemporanei ha reso inefficaci i travestimenti, in particolare quello di Rosalinde quando si presenta nei panni di una “cantante ungherese”. Quel poco di italiano che ha strappato qualche sorriso, è pervenuto dal carceriere Frosch, interpretato dal celebre attore Paolo Rossi, che la regia introduce in una controscena già nel primo atto, in casa di Eisenstein, il quale col suo accento milanese in qualche modo ha ricalcato i passi del celeberrimo primo interprete, Alexander Girardi, a Vienna conosciuto da tutti col nome Xandi, che recitava in dialetto viennese. Non ci ha risparmiato battute politiche e nemmeno una improbabile canzoncina da osteria con accompagnamento d’orchestra, quella della Scala ovviamente. Viceversa la musica di scena durante la festa in casa Orlofsky era … una base registrata, no comment!

Sul podio al posto dell’aunnunciato Zubin Mehta si è presentato Cornelius Meister che ha inseguito per tutta la recita lo spirito dell’operetta senza riuscire quasi mai a raggiungerlo: va detto che l’orchestra ha suonato correttamente, e così pure il coro istruito da Bruno Casoni, si è difeso mantenendo un livello accettabile. Livello che, da un punto di vista vocale, ha rispettato pure il cast in cui a dire il vero nessuno ha primeggiato. Solo Eva Mei, Rosalinde di lunga carriera anche in Italia, è riuscita a strappare un applauso convinto dopo la bella esecuzione della celebre Csardas, quando poi è calata la tela il fuggi fuggi è stato generale ed i saluti all’italiana, che ora usano alla fine degli atti, hanno corso il rischio di vedere uscire gli interpreti a sala silente.

Daniela Fally, Adele, è stata una piccante servetta dalla voce un po’ flebile nella vasta sala. Viceversa ben piantata la Orlofskaya interpretata da Elena Maximova, cui spetta pure il primato della battuta più imbarazzante della serata quando offre al Dottor Falke, il vivace Markus Werba, un reperto archeologico (un orrendo totem presente in scena) “Viene dall’Egitto?” si informa Falke “No no” risponde la Orlofskaya “dall’Iraq?” insiste Falke, “Dalla Siria” confessa la russa e lui di rimando “e come ha fatto ad averlo?” … “meglio che lei non lo sappia”. Ecco, se attualizzazione ha da essere, questa è. Giorgio Berrugi, è stato Alfred, un tenore italiano, qual’è con continue citazioni operistiche, come da manuale, Peter Son un Gabriel tenorile, ma senza particolare fascino, ha sostituito l’orologino a carillon con un Rolex da polso; adeguato al ruolo del balbuziente avvocato Blind Kresimir Spicer e in parte anche il basso Michael Kraus, Franke. Bene pure la Ida di Anna Doris  Capitello, prelevata dalle fila dei rampolli dell’Accademia di Canto della Scala.

Andrea Merli

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