Cagliari: LA CIOCIARA – Marco Tutino, 24 novembre 2017

Cagliari: LA CIOCIARA – Marco Tutino, 24 novembre 2017

opera in due atti
libretto Marco Tutino e Fabio Ceresa, dalla sceneggiatura di Luca Rossi e dal romanzo omonimo di Alberto Moravia
musica Marco Tutino

maestro concertatore e direttore Giuseppe Finzi

regia Francesca Zambello 

personaggi e interpreti :


Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari
maestro del coro Donato Sivo

scene Peter Davison
costumi Jess Goldstein
luci Mark McCullogh
video S. Katy Tucker
coreografia Luigia Frattaroli

nuovo allestimento del Teatro Lirico di Cagliari, in coproduzione con la San Francisco Opera

prima esecuzione assoluta in Europa


Spiace dover parzialmente dissentire da un’affermazione del peraltro interessantissimo e ben articolato, oltre che documentato, saggio di Gianni Olla pubblicato nel programma di sala de La ciociara per il Teatro Lirico di Cagliari, laddove a proposito della versione operistica nel 1977 di Napoli milionaria, l’opera di Nino Rota sul testo di Edoardo De Filippo, scrive “gli anni di piombo in cui si dibatteva l’Italia non erano i più propizi per evocare un manifesto programmatico di questo genere e lo spettacolo non ebbe alcun successo”. Anzi, lo spettacolo fu accolto da un grande successo di pubblico, anche a livello mediatico: fu trasmesso in diretta TV. Fu la critica di allora, fortemente condizionata ideologicamente, a decretarne il fiasco, costruito a tavolino e frutto di un pregiudizio duro a morire e, cioè, che la musica, il teatro e dunque l’opera che cerchino il dialogo, la comunicazione e la comprensione del pubblico, siano da evitare come simbolo di debolezza borghese, al fine di inseguire l’intransigenza di uno sperimentalismo fine a sé stesso, onanisticamente compiaciuto del proprio isolamento intellettuale.

Oreste Bossini, sempre dalle pagine del programma di sala, sottolinea come l’estetica di Marco Tutino “si fonda sulla convinzione che sia necessario superare la frattura tra autore e pubblico” e sia dunque “pienamente lecito riprendere in mano le forme tradizionali del linguaggio musicale occidentale, per riempirle di contenuti nuovi e adatti ai problemi del nostro tempo“. In poche parole, tornare alla nostra tradizione musicale, chiamatela pure NeoVerismo se volete apporre un’etichetta, alla struttura riconoscibile del melodramma che trova nella nostra storia, nella nostra letteratura e nella cinematografia, quall’identità negata da certa avanguardia sterile e stereotipata che aligna a casa nostra.

La ciociara, al suo debutto europeo dopo la “prima assoluta” a San Francisco il 13 giugno del 2015, è destinata in tal senso a segnare una svolta decisiva, anche nella prolifica e sostanziosa produzione musicale dell’Autore milanese che con questo firma il 15esimo lavoro teatrale e che, nel corso di un arco compositivo che parte dalla metà degli anni ottanta dello scorso secolo, ha seguito in crescendo un preciso ed individuabile percorso teatrale e compositivo. Lode dunque al Teatro Lirico di Cagliari che ha colto, letteralmente, la palla al balzo acquirendo dal Teatro Regio di Torino questa priorità alla quale, incomprensibilmente per i più, il teatro piemontese ha rinunciato. Un atto di coraggio e di sfida ampiamente premiato dalla risposta del pubblico, che ha salutato con entusiasmo e grande partecipazione emotiva lo spettacolo e l’opera: applausi a scena aperta hanno accolto la struggente ninna nanna in dialetto romanesco intonata da Cesira dopo la scena dello stupro e quindi il bellissimo intermezzo che precede l’ultimo quadro dell’opera, suonano “strani” in un’opera contemporanea.

Ancora di più uscire dal teatro con motivi che ti serpeggiano in testa. Altro segno della presa e reazione, se vogliamo un po’ infantili, ma certamente significativi della emotiva partecipazione, sono stati i “buh” rivolti ai personaggi “cattivi”, non già ai pur bravi interpreti: nell’ordine i due soldati marocchini che forzano le due donne, il cinico feldmaresciallo Fedor von Bock della Wehrmacht ed il traditore Giovanni.

Prezioso il lavoro di Luca Rossi che ha tratto la drammaturgia dal romanzo di Moravia, del 1957 e dal film di De Sica, del 1960, adattandola alle esigenze dell’opera lirica. Pure il lavoro dei verseggiatori del libretto, Fabio Ceresa e lo stesso Tutino, è parso ideale nell’adattamento teatrale che coglie I punti salienti dell’originale e, soprattutto, conferisce carattere e spessore teatrale a Giovanni, sviluppando così il classico triangolo melodrammatico tra soprano, tenore e baritono. La suddivisione in due atti di tre scene l’uno, per la complessiva durata di circa due ore e mezza, è parsa pure proporzionata e consequenziale nello svolgersi della trama che mantiene sempre un ritmo cinematografico, non cede mai in tensione. La musica si descrive da sola, all’ascolto: Tutino è molto abile nello sfruttare una trasposizione allusiva alla canzone di Cesare Andrea Bixio “La strada nel bosco” che nel film è cantata a squarciagola dal camionista Florindo mentre dà un passaggio alle due donne dopo la subita violenza, che accompagna tutta l’opera e sfocia poi, a “liberazione” avvenuta, nel canto di un uomo di strada durante la festa nel villaggio di Santa Eufemia. Il linguaggio musicale si dirama però con forte personalità in una scrittura che, pur tenendo conto del passato prossimo e dunque di Berg quanto di Sostakovich, sfrutta un’orchestra rigogliosa in cui trovano spazio, tra gli altri, il basso tuba wagneriano, la celesta ed una notevolissima percussione.

Lo spettacolo si avvale della regia dell’italo americana Francesca Zambello, ripresa alla perfezione dalla sua collaboratrice Laurie Fedelman con la riapertura di un dettaglio che era stato soppresso per il pubblico americano: la scena in cui Cesira si concede a Giovanni, durante il bombardamento nella sua bottega di Trastevere. Grazie anche al magnifico impianto scenico creato da Peter J. Davison e alle proiezioni di S.Katy Tucker, che accolgono lo spettatore e che illustrano la storia prima che inizi lo spettacolo a sipario calato e durante l’intervallo con spezzoni tratti dai cinegiornali d’epoca. Da segnalare l’ottimo gioco di luci disegnato da Mark McCullough, i costumi di Jess Goldstein, che riprendono fedelmente quelli del film ed I movimenti coreografici e mimici, lavoro di Luigia Frattaroli.

Musicalmente da lodare incondizionalmente il lavoro dell’ottima orchestra, sotto la sicura guida del Maestro Giuseppe Finzi e la partecipazione del Coro del Teatro Lirico, istruito da Donato Sivo, in crescita per partecipazione attoriale e compattezza sonora, apprezzata specialmente nel suggestivo “Padre nostro” che si intona nella seconda scena del primo atto.

Affrontare il ruolo che fu della Loren rappresenta una doppia sfida per Anna Caterina Antonacci, per cui il personaggio di Cesira è stato pensato e su cui è stato costruito. Come ci ha confidato in una breve intervista, è stata un’esperienza gratificante costruire assieme all’autore e veder nascere il personaggio che richiede, comunque, una presenza catalizzante e carismatica. La Antonacci, oltre a possedere le fisique du role, è soprattutto un’interprete di eccezionale levatura cui riesce con estrema efficacia, incisività, assumere i toni e dar senso pure ai silenzi per dar vita ad una figura indimenticabile che si staglia e giganteggia su tutti. Ovviamente risponde anche la voce ad un canto di conversazione che passa dal declamato al canto sul fiato, al sospiro ed al grido, sempre in aderenza totale al ruolo. Se lo scroscio di applausi è stato inarrestabile dopo la citata ninna nanna, l’accoglienza alla ribalta  è stata a dir poco trionfale.

Nel cast alternativo la sfida di Alessandra Volpe, mezzosoprano dotata di un bel timbro caldo e di un ottimo temperamento latino, è stata dunque tripla; ne è uscita a testa alta, accolta pure lei trionfalmente. Lo stesso dicasi per il tenore venezolano Aquiles Machado, doppiato con grande successo dal siciliano Angelo Villari non meno che ottimo nel ruolo di Michele, che canta con enfasi lirica e a cui Tutino affida momenti magici: nel primo atto e, soprattutto, con uno struggente “addio alla vita”, molto pucciniano, nella seconda scena del secondo atto, prima di essere “mitragliato” da Giovanni. Questo nuovo personaggio, cattivo a tutto tondo, sorta di Scarpia o Rance mutuato pure da Puccini, ha trovato nel rumeno Sebastian Catana il giusto spessore rustico e anche debolmente umano, che ha messo pure in rilievo con un accurato fraseggio il baritono toscano David Cecconi nella seconda recita. Va detto che è, musicalmente e teatralmente, un personaggio interessantissimo e sviluppato magistralmente. Rosetta, la figlia adolescente di Cesira, è affidata ad un soprano lirico: sia Lavinia Bini che Claudia Urru ne hanno ricavato un’interpretazione toccante, pur con caratteri diversi. La ragazza prima innocente, poi inebetita dalla violenza subita ed infine sciolta tra le braccia materne, costituisce il culmine della emotività nell’opera; è difficile non commuoversi alle lacrime nel finale quando, rappacificate e fiduciose nel futuro, le due donne abbandonano la scena sugli ultimi accordi orchestrali.

Un cameo di fondamentale importanza è costituito dal ruolo del Feldmaresciallo von Bock: il profondo e allusivo Roberto Scandiuzzi ne ha tratto ogni sfumatura, non meno del pur bravo Giovanni Battista Parodi nel secondo cast. La lunga lista di ruoli di fianco allinea due macchiette: l’avvocato Pasquale Sciortino e sua madre Maria: perfetto nella parte del pusillanime collaborazionista il tenore Gregory Bonfanti ed esilarante nel ruolo della vecchia svampita la bravissima Lara Rotili. Impressionante nel breve inciso in cui pensa di cullare il figlio trucidato dai nazisti, la Lena del mezzosoprano Martina Serra. Aderenti alle rispettive parti il tenente John Bukley, il baritono Nicola Ebau, soccorso da Cesira e Michele, Enrico Zara cui spetta l’onere di intonare la canzone in piazza, e ancora i due “goumiers” marocchini, Francesco Leone e Michelangelo Romero.

E per conlcudere l’auspicio che questo allestimento e quest’opera circolino nei nostri teatri e che siano portavoce del nostro “vero” melodramma all’estero. L’opera non è morta né il pubblico è costituito da mummie, come alcuni vorrebbero farci credere. E La ciociara ne costituisce la prova.

Andrea Merli

 

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