In memoria di Beppe De Tomasi

In memoria di Beppe De Tomasi

 

Colpito da una forma grave del morbo di Parkinson, da quattro anni Beppe De Tomasi era ricoverato alla Casa Verdi. Fu una scelta inevitabile e dolorosa per un uomo vitalissimo che fino a pochi mesi prima, sebbene assistito e su sedia a rotelle, aveva curato regie a Catania, Le convenienze ed inconvenienze teatrali donizettiane opera “sua” come poche altre dalla prima edizione all’Opera Giocosa di Savona, e Carmen al Teatro Coccia di Novara.

tomasiNato il 19 marzo del 1934, figlio di un dentista che voleva assolutamente avviarlo allo studio della medicina, si iscrisse a Farmacia, ma non a Milano a Pavia per potere di nascosto frequentare la scuola d’arte drammatica. Quindi attore, poi cantante dotato di una sonora voce di basso-baritono, infine dal 1967 regista di opere liriche. Un suo primo spettacolo, il suo debutto al Gran Teatro del Liceo di Barcellona con cui poi mantenne un rapporto ininterrotto per decine d’anni, fu Un ballo in maschera, con Carlo Bergonzi, Rita Orlandi Malaspina e Manuel Ausensi, tra gli altri. Io, “impiccioncino” imberbe, lo vidi per due recite appollaiato al 4° piso del vecchio Liceo. E me lo ricordo ancora, correva se la memoria non mi tradisce il 1969. Mi colpì l’uso che fece, tra i primi se non il primo, dei tulle dipinti che, con un opportuno gioco di luci “sparivano” lasciando spazio ad un’altra scena. Ovviamente spettacolo fedele al libretto, alla drammaturgia e soprattutto alla musica, con scene e costumi adeguati: del resto i tempi del “teatro di regia” alla tedesca erano di là da venire.

Ricordo anche benissimo il primo incontro e come nacque l’amicizia: fu a Bregenz in occasione del Don Pasquale, nell’estate del 1975. Dirigeva Carlo Franci, là con la moglie, la signora Cabiria e la figlia ragazzina, Francesca ora valente mezzosoprano. Vi cantavano Giuseppe Taddei, Dado Rinaldi, Vittorio Terranova e la mia carissima Danielina, la Mazzucato, che ci presentò facendo da gancio. Erano i miei anni dell’università a Trieste ed in macchina (una cinquecento Fiat!) con al volante il compagno di avventure operistiche Rino Alessi, valicando le Alpi in un percorso lungo ma magnifico, raggiungemmo la ridente località sul lago.

Poi, una volta trasferitomi a Milano, nel 1979, l’amicizia con Armando Ariostini, con Simone Alaimo, con Giancarlo Tosi e con tanti altri ragazzi che Beppe aiutava e sosteneva nei primi passi artistici, la frequentazione si fece molto più assidua. Da lì in avanti fu un affastellarsi di ricordi, di spettacoli indimenticabili. In provincia ed all’estero: la Scala lo snobbò, per quel provincialismo che ci contraddistingue noi italiani e milanesi, ma De Tomasi conobbe un trionfo al Metropolitan con la Fedora, nata al Liceo di Barcellona, protagonisti Domingo e la Scotto. In quel teatro, che fu il “suo” ed il mio teatro di formazione, memorabile un Werther con Kraus e, ancora, la Scotto; non meno dei “suoi” Contes d’Hoffmann, tra l’altro portati anche al Regio di Parma, sempre con Kraus. Ma l’elenco è praticamente inesauribile.

Alcuni, non senza una punta di spocchia, lo hanno definito un “artigiano”: aggettivo nobilissimo, si badi, ma Beppe fu davvero un GRANDE, come bene ha scritto Enrico Stinchelli sul suo profilo di Facebook. Pochi registi possono vantare la sua conoscenza, cultura e sensibilità. Leggere l’opera seguendola con lo spartito in mano, intervenire addirittura in sostituzione di un cantante ed interpretarne la parte. A me capitò di sentirlo durante una “generale” – chiusa al pubblico – di Rigoletto, sempre al Liceo, sul podio Romano Gandolfi, in scena Leo Nucci ed Adriana Anelli. Alfredo Kraus, bloccato dal traffico cittadino non era giunto in tempo. De Tomasi mandò un figurante in scena e dalla platea, di fianco al direttore, cantò l’ingresso del Duca e “Questa o quella”. Poi arrivò, scusandosi, Kraus e si riprese tranquillamente la prova.

L’aneddotica, i ricordi del buon Beppe meriterebbero un libro a parte. Sempre caratterizzati da uno spirito ironico, caustico e divertito: per esempio lo scherzo telefonico che fece niente meno che a Wally Toscanini, fingendosi la Callas, sconsolatissima, in linea da Parigi. Era talmente bravo nelle imitazioni che quella ci cascò. Poi però la Callas si arrabbiò moltissimo anche perché ci fu chi, molto incautamente, rivelò l’autore dello scherzo.

Infine il rimpianto, il fatto di nominarlo ad ogni piè sospinto, cioè ogni qualvolta capita – e capita assai spesso – di assistere a spettacoli con regie assurde, strampalate ed inutili: “Se lo avesse fatto il buon Beppe lo avrebbero massacrato, lo fa … (scrivete voi il cognome che più vi garba) ed è geniale”. In verità De Tomasi fu anche un innovatore. In molti allestimenti di registi ora di moda, per chi ha un minimo di memoria storica, certi effetti, certe soluzioni rimandano a suoi spettacoli di oltre trent’anni fa. La differenza sta nel non trascurabile dettaglio che l’operato di De Tomasi non era mai rivolto ad ottenere un’affermazione del proprio ego, ad un protagonismo carpito agli autori ed agli interpreti. Tutto è sempre stato al servizio della scena e della musica.

Una lezione, dunque, per tutti noi: anche per chi, come il sottoscritto, al teatro si accosta sostanzialmente come spettatore, ma che però ama stare tra le quinte a capirne e carpirne i meccanismi. Nella mia unica esperienza australe in veste di regista d’opera, proprio con Le convenienze ed inconvenienze teatrali, ribattezzate “Viva la mamma” a Buenos Aires, tenni ben presente la sua lezione.

E come me, con maggior profitto, tanti validi registi. Voglio citarne almeno due: Pier Francesco Maestrini e Renato Bonajuto. Ma la lista di artisti, scenografi, costumisti, cantanti, in una parola di amici di Beppe si fa lunghissima: dal più piccolo al più grande lo hanno tutti adorato per il sostegno, la comprensione, l’aiuto che da lui hanno sempre ricevuto, anche e soprattutto in situazioni estreme.

Con la morte di De Tomasi, che se n’è andato in punta di piedi, alle otto di sera dello scorso sabato 4 giugno, dopo cena mentre era davanti alla TV in attesa di essere ricoverato nella sua camera, si chiude un mondo. Ma la speranza è che il suo testimone passi alle nuove generazioni, che possa diventare esempio e motivo di studio per i giovani. Per noi “anzianotti” rimane la consolazione, in tanta tristezza, di belle serate, di tante risate, di un’amicizia sincera che porteremo sempre in cuore.

Caro Beppe, non ti dimenticheremo: troppo ti dobbiamo.

Andrea Merli

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