Teatro Comunale di Bologna: CARMEN – Georges Bizet
CARMEN
opéra-comique in quattro quadri
di Georges Bizet
su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy
Direttore: Frédéric Chaslin
Regia e scene: Pietro Babina
Personaggi e Interpreti:
- Carmen: Veronica Simeoni, Cristina Melis (19, 23, 29)
- Micaela: Maria Katzarava, Alessandra Marianelli (19, 23, 29)
- Frasquita: Sonia Ciani
- Mercédès: Antonella Colaianni
- Don José: Roberto Aronica, Andeka Gorrotxategui (19, 23, 26, 29)
- Escamillo: Simone Alberghini
- Le Dancaire: Maurizio Leoni
- Le Remendado: Paolo Antognetti
- Zuniga: Massimiliano Catellani
- Moralès: Nicolò Ceriani
- Venditrice di arance: Lucia Michelazzo
- Uno zingaro: Sandro Pucci, Gabriele Spina (19, 23, 29)
- Lillas Pastia: Alessandro Ciardini
- Il Mago: Andrea Fidelio
Costumi: Gianluca Sbicca
Aiuto regista: Gianni Marras
Aiuto scenografo: Gianluigi Venturini
Maestro del Coro: Andrea Faidutti
Maestro del Coro Voci Bianche: Alhambra Superchi
Nuova produzione TCBO Orchestra, Coro, Coro Voci Bianche e Tecnici del TCBO
Un’altra incursione impiccionesca: la vigilia dei mie primi 65 anni a Bologna, celebrata con Carmen, il giorno del mio genetliaco per La Cenerentola.
“Stiamo avvallando un grosso equivoco” rubo la frase all’amico, e maestro, Filippo Crivelli. Cade a fagiolo nel dover illustrare l’operato di Pietro Babina, neo regista d’opera che ha firmato pure scene e luci, i costumi (chiamiamolo tale un insieme da trovarobato e le T-shirt arcobaleno) si debbono, piuttosto, a Gianluca Sciacca mentre le “Illustrazioni di scena” – immagino si tratti dei grandi cartelloni pubblicitari reclamizzanti un’ipotetica compagnia low cost, la “Bizet Airline” – recano la firma di un altro Babina, Federico.
Cito le note biografiche pubblicate nel programma di sala: classe 1976, Pietro Babina è regista scenografo e drammaturgo. Più volte premio UBU […] Nel 1989 ha fondato, e diretto per ventuno anni, la compagnia teatrale Teatrino Clandestino; dal 2010 conduce la Mesmer Artistic Association […] ama considerarsi un “uomo rinascimentale” per l’attitudine leonardesca a indagare ogni aspetto dello spetttacolo e della macchina teatrale. Un empirico che predilige la vitalità delle tavole del palcoscenico rispetto al lavoro a tavolino, comunque propedeutico. “Ciel! Quante belle frasi!” parafrasando Adriana Lecouvreur.
Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno, ci insegnavano un tempo a dottrina. Peccato che questo esordio si sia rivelato un disastro sottolineato, almeno secondo quanto riportato da chi era presente alla “prima”, da bordate di “buh” e fischi e grida di “vergogna” al suo comparire alla ribalta finale. Alla recita a cui si riferisce la presente cronaca, quella di un tranquillo martedì 22 marzo, in assenza dei responsabili della parte visiva, lo spettacolo è andato liscio, ma l’umore del pubblico in sala non era dei migliori, passavano dall’irritazione, alla noia ed alla tristezza.
L’idea di comporre le scene con delle scritte “corporee”: Manufacture e Corps De Garde, nel primo, Lilias Pastia nel secondo, non è nuova. Presentata da uno scarso illusionista in frac e tuba, alle prese con un fonovaligia su cui gira suppostamente i dischi della Carmen ad ogni inizio atto, coadiuvato da una serie di diavoletti di cui, francamente, è sfuggita la valenza e l’eventuale utilità, della Carmen se n’è voluto fare un prodotto commerciale ad uso turistico, riducendola ad una pantomima. Operazione prevedibilmente strampalata e nemmeno portata a buon fine con una logica teatrale, ma da cui è derivato un totale appiattimento drammaturgico. Con errori madornali, impensabili anche per chi di teatro non abbia alcuna esperienza: imperdonabile l’ingresso della protagonista prima della sortita sottolineata con il coro maschile dalla musica e pretesa dal libretto. Risibile la soluzione di chiudere Micaela in un baule, di far comparire le carte animate dai diavoletti e di ridurre Escamillo, sempre nel terzo atto, in un improbabile alpinista cui solo mancava chiedere se il cioccolato era svizzero o dichiarare che l’acqua era altissima e purissima.
Risparmio al paziente lettore ulteriori dettagli, ma ce ne sarebbe da scriverne un capitolo: l’equivoco stravagante, ma purtroppo assai ricorrente oggidì, è quello di cercare di calzare i propri vizi e vezzi in qualsiasi opera illudendosi aver trovato un’originale cifra innovativa, senza rispettare la drammaturgia originaria e caricaturizzando, nel migliore dei casi, il tutto. In ciò, va detto a suo ulteriore discapito, Pietro Babina è in buona compagnia.
Le poche consolazioni sono pervenute sul fronte musicale, ma anche in questo caso si rende necessaria una premessa. Optare per la versione originale Opéra Comique, con i dialoghi parlati in francese, in Italia ha senso solo se si dispone di interpreti madre lingua e/o che il francese lo dominano perfettamente. Altrimenti, senza voler cedere al richiamo dello “strano augello” della vetusta traduzione italiana, che pure ha fatto girare all’opera il mondo per oltre un secolo, tanto vale rifugiarsi nella tradizionale Guiraud con i recitativi musicati ed evitarci un francese impossibile, dalle inflessioni romanesche piuttosto che emiliane a seconda del caso. Che poi se si vuole essere filologici si inizia con evitare tagli della parte musicale, qui a Bologna ampi e generosi già nel duetto tra Micaela e Don José e pure nel terzo atto “chez les contrebandiers”. A ciò si sommi una direzione pesante, poco ispirata e a tratti bandistica. L’orchestra ha conosciuto tempi migliori di questi sotto la bacchetta di Frédéric Chaslin. Bene il coro, almeno quello, istruito da Andrea Faidutti e pure intonati i “diavoletti” ubbidienti a Alhambra Superchi, Maestra delle voci bianche.
Eppure il cast è parso adeguato e, in altre condizioni, avrebbe sicuramente reso pure meglio. Iniziando dalla bravissima Veronica Simeoni, mezzosoprano che ricordo al suo debutto di ruolo a Rovigo qualche anno fa, e che ora è maturata come vocalista e come interprete. Chimica della migliore tra lei e Don José, non a caso suo compagno nella vita, Roberto Aronica. Le scaramucce amorose, i baci, la passione erano autentici, ma soprattutto Aronica è stato un “vero” Don José: grazie al bel timbro virile e maschio, anche brutale nell’accentare con gagliardia e veemenza, ma che ha saputo cesellare un’aria “del fiore” di estrema liricità, con pregevoli mezze voci e con un canto al tempo nostalgico e ispirato, da folle innamorato.
Simone Alberghini, pure se penalizzato dalla regia, è riuscito ad imporsi per la peculiarità del timbro e per l’eleganza della figura, oltre che per una prestazione vocale di assoluto rispetto. Bene pure la intensa Micaela di Maria Katzarava, un po’ tesa nell’acuto che è lancia di forza e con un suono, per dirla alla francese, percoutant. Ottime le parte di fianco, sia musicalmente che scenicamente, li si enumera con lode cumulativa in ordine di apparizione: Nicolò Ceriani, Morales, Massimiliano Catellani, Zuniga, Sonia Ciani, Frasquita, Antonella Colaianni, Mercedes, Maurizio Leoni, Dancairo e Paolo Antognetti, Remendado.
Andrea Merli