Milano – I PROMESSI SPOSI – 24 Ottobre 2015

Milano – I PROMESSI SPOSI – 24 Ottobre 2015

I PROMESSI SPOSI

Opera i quattro atti

Libretto di Emilio Praga (1872-1875)

Musica di Amilcare Ponchielli

Partitura realizzata dal gruppo di lavoro I promessi sposi del Conservatorio di Milano

Coordinato da Marco Pace

 

Direttore:  Marco Pace 25/10 Andrea Solinas 24/10

Regia:  Sonia Grandis

 

Personaggi e Interpreti:

  • Lucia: Jeon Yeajin / Baek Min-Ah / Huang Jingyao (7/11)
  • Renzo: Choung Kyu Nam / Kim Hyuksoo
  • Don Rodrigo: Zhao Denghui / Tian Hao
  • Fra Cristoforo: Davide Procaccini / Victor Sporyshev
  • La Signora di Monza: Carlotta Vichi / Olivia Antoshkina
  • Griso: Kim Chiyong
  • Agnese: Caterina Piva
  • L’innominato: Zhao Sichong / Pasquale Conticelli
  • Cardinale Borromeo: Filippo Rotondo / Giovanni Impagliazzo
  • Tonio: Wang Chuan
  • Servo: Daniele Lequaglia

Orchestra e Coro del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano

Maestro del coro  Maria Grazia Lascala

Opera minore di un compositore minore. Inutile girarci intorno: Ponchielli è passato alla Storia come l‘autore della felicissima Gioconda (un compendio, in un‘opera sola, dell‘intero melodramma romantico italiano, filtrato attraverso lo scapigliato libretto di Boito sotto mentite spoglie) e non ci sono Figliol prodigo, Marion Delorme e Lituani che tengano… la possibilità, soprattutto di rimanere stabilmente in repertorio. Lo ha scritto prima l’amico Sergio Albertini su “feisbuc” ed io qui lo ribadisco.

Ciò detto, ammetto pure di essermi affrettato alla Sala Grande del Conservatorio milanese per assistere alla messinscena – si badi, con regia e scene e costumi – de I promessi sposi, mai intesi prima d’ora dal vivo, felice di metterli in lista leporellamescamente, seppur cosciente di ciò che ci aspettava.  Una musica a tratti pure ispirata – pregevoli la sinfonia, un intermezzo sinfonico con “a solo” di violino, alcune arie non sprovviste di un certo volo, specificamente quella affidata alla voce di basso di Padre Cristoforo e l’arioso di Lucia nel terzo atto – ma nel complesso retrodatata già alla prima stesura del 1856, quando segnò il debutto del giovane 22enne compositore, ed addirittura “vintage” nel 1872, anno della revisione dello spartito, del libretto e della sua esecuzione milanese al Teatro Dal Verme, che segnò l‘affermazione definitiva dell‘Autore ed il suo contratto con la Casa Ricordi. Musica che ha prevedibili cadute di tono: per esempio il duetto tra Rodrigo (baritono) e Padre Cristoforo potrebbe sfociare per vigore drammatico nell’equivalente scontro Filippo II e Grande Inquisitore del Don Carlo verdiano. L‘attacco, però, è un allegro a tempo di polca e il tutto si conclude con una stretta del genere: “Suoni la tromba e intrepido”. Così pure la drammatica scena, purtroppo breve per l’incalzare del dramma e per l’economia del passaggio dal Manzoni al librettista Emilio Praga (e qui bisognerebbe aprire un capitolo a parte, poichè la prima giovanile stesura vide impegnati nella colossale impresa lo stesso Ponchielli, coadiuvato da Cesare Stradivari, Giuseppe Aglio, Giuseppe Bergamaschi e dall‘amico Rocchino che però volle restare anonimo…) che si sviluppa con una cabaletta, con tanto di “da capo“, per il mezzosoprano, laddove una Eboli avrebbe innalzato al Cielo un defintivo e spiazzante “O don fatale!”.

Insomma, ce ne fosse bisogno, abbiamo avuto la riprova che Verdi fece terra bruciata intorno a sè, senza possibilità di appello. Si mormora che il buon Peppino avesse accarezzato l’idea di metterli in musica lui, questi sventurati sposi. Magari con altro libretto, ma se ne tenne alla larga poiché si tratta di un romanzo che non ammette riduzioni, pena la banalizzazione e la trasformazione del complesso ordito in una sorta di “telenovela” ante litteram.

E se da una parte è apprezzabile lo sforzo archeologico di Marco Pace che, oltre a salire sul podio per la seconda recita, ne ha coordinato la revisione dello spartito, congiuntamente alla revisione critica del libretto da parte di Licia Sirch, dall’altra ci si pone più di una questione che ha difficile risposta. La prima è che senso abbia mettere in scena – quando sarebbe stata più logica la forma concertante, magari con uso di sopratitoli o con un programma di sala che, se non il libretto per intero, contenesse almeno la sinossi – l’opera in uno spazio non consono e con una regia semplicemente risibile affidata, per altro, ad una docente di arte scenica, Sonia Grandis, quando si dispone di un cast costituito maggiormente da orientali, nello specifico koreani? A nessuno è parso grottesco avere, in Italia ed a Milano, in scena Lucia, Renzo, Rodrigo, il Grifo, l’Innominato e persino Tonio, in “maschera” seicentesca, ma con i tratti somatici del Sol Levante? Ma poi, per rendere appieno questo genere che richiede grandi e possenti voci – ricordiamo per tutte la prima Lucia milanese, nel 1872, quella Teresina Brambilla che nel 1874 diventò la Signora Ponchielli – ci vorrebbe una coscienza della parola cantata e, magari, una conoscenza del romanzo originale, della psicologia dei personaggi. Tutti elementi in gran parte deficitari in quest‘occasione.

Ci si chiede, infine, che beneficio possano ricavarne gli allievi a tornare nei loro paesi di origine avendo messo in gola, come si dice in gergo, un‘opera di tal fatta e di rarissima esecuzione. Si è avuta la netta sensazione che, al di là del lavoro autocelebrativo – ben documentato da un programma di sala dove le citazioni ed i ringraziamenti reciproci si sprecano, ma dove nemmeno si associa alla foto il nome dell‘interprete – ben poco frutti tutto ciò anche se, pare, ci sia dietro un progetto discografico ed addirittura la confezione di un DVD.

Per ordine si lodi la brava orchestra, dove ha spiccato la “spalla“ del violinista Michele Torresetti. Apprezzabile l‘intervento del popoloso coro, in eccesso sia di elementi che di volume, istruito da Maria Grazia Lascala. Pregevole la direzione, alla “prima” del giovane Maestro Andrea Solinas, che ha comunque garantito una certa coesione drammatica ed un’incalzante onda sonora. Tra i solisti va assolutamente messa in risalto la bravissima Gertrude, monaca di Monza, interpretata con un piglio “cossottesco” dalla valente Carlotta Vichi, elemento già noto ed in crescita costante.  Ottimo soprano è parso pure Jeon Yeajin, che ha dato vita ad una palpitante Lucia (condannata dalla regia a rimanere per tutta l’opera con le “forchette” nuziali in testa, pure nella scena finale del Lazzaretto) detentrice di una voce timbricamente ricca, ben impostata e tecnicamente a posto. Note dolenti sul versante maschile: iniziando dal Renzo, che ha iniziato bene, ma poi tentando piani e pianissimi “alla Kaufmann”, senza averne ovviamente né la tecnica né la figura, è incappato in suoni spoggiati e flebili, e addirittura nelle stecche. E’ stato sostituito da un connazionale nell’ultimo quadro, ma se non lo avessero annunziato probabilmente nessuno se ne sarebbe accorto. Il Rodrigo koreano ha dimostrato di avere un vocione un tanto al kilo. E tanto basti. Il resto erano stonature e berci: di nuovo ci si chiede cosa insegnino al Conservatorio. Italiano il Fra Cristoforo di Davide Procaccini, a cui si consiglia di proseguire con lo studio per mettere a fuoco un materiale in natura interessante. Ottima la Agnese del mezzosoprano Caterina Piva, che ha poca parte, ma che la ha saputa mettere a fuoco. Degli altri? Si fa loro un favore a non menzionarli.

 Primo atto
 secondo atto
 terzo atto
 quarto atto

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