ROBERTO DEVEREUX OPERA di BILBAO 21 Novembre 2015
ROBERTO DEVEREUX
opera in tre atti
di Gaetano Donizetti su libretto di Salvadore Cammarano
tratto dalla tragedia di Jacques-François Ancelot: Elisabeth d’Angleterre
Direttore: Josep Caballé-Domenech
Regia: Mario Pontiggia
- Roberto Devereux: Gregory Kunde
- Elisabetta: Anna Pirozzi
- Sara Silvia: Tro Santafè
- Lord Duca di Notthingham: Alessandro Luongo
- Lord Cecil: Eduardo Ituarte
- Gualtiero: Raleigh Javier Galán
- Un Paggio: Gexan Etxabe
- Un Familiare di Notthingham: Gexan Etxabe
Orquesta Sinfónica de Euskadi
Coro de Ópera de Bilbao
Director of the Chorus: Boris Dujin
Production: Ópera Las Palmas
Secondo titolo in cartello a Bilbao, dove la gloriosa associazione di aficionados dell’opera ABAO OLBE è giunta alla 64esima temporada, il donizettiano Roberto Devereux. Nel 1968, dopo il debutto “in casa” al Liceo di Barcellona (ed il vostro Impiccione, ai tempi quasi imberbe, là stava abbarbicato nel laterale del cuarto piso) a portare alto lo stendardo donizettiano pure a Bilbao fu Montserrat Caballé, che dopo il recupero genceriano in quel di Napoli, ne fece per almeno dodici anni uno dei suoi più acclamati cavalli di battaglia. Chi firma, a distanza di quasi cinquant’anni, ha sempre bene in mente quelle recite barcellonesi in cui, a fianco della Diva, cantarono il marito, Bernabé Martì nel ruolo del titolo ed un Nottingham assolutamente eccezionale: Piero Cappuccilli. E chi potrebbe scordaseli?
Per molti versi rimmarrà pure nella memoria questa recita di ieri, 21 novembre 2015, dove si è avuta la conferma di un’altra affermata artista che al suo debutto di ruolo promette faville nel repertorio donizettiano, ma pure in quello belliniano (penso a Norma) e non solo nel già frequentato con successo verdiano. Tra l’altro, prossimo suo il interessante debutto scaligero ne I due Foscari, dove non si stenta a immaginarla battagliera Lucrezia Contarini.
Anna Pirozzi non è più una promessa, bensì una conferma di quanto possano la tenacia e lo studio, sostenuti ovviamente da una voce non meno che eccezionale per qualità timbriche, per ampiezza di suono e che ora, in questo ruolo che non fa sconti a nessuna, ha dimostrato di dominare tutte le dinamiche, dal pianissimo al fortissimo, con belle messe di voce sostenute benissimo dai fiati, con uso esemplare del legato, con sorprendente precisione nello snocciolare le agilità, sufficientemente fluide e suscettibili di miglioramento in corso di recite, presa maggior sicurezza, fiducia nelle proprie capacità e passata l’inevitabile tensione della “prima”. Un doppio debutto poichè si presentava per la prima volta all’esigente pubblico bilbaino. E già interpretativamente matura, notevolissima per la scansione della parola cantata, per il fuoco nell’accento e per la incisività del fraseggio, per una presa di ruolo che non si esagera nel definire eccezionale per la maturità raggiunta dall’artista a cui, va sottolineato, nulla è mai stato regalato, anzi è costato una lunga gavetta. E quindi ci si complimenta doppiamente e la si attende, con curiosità ed impazienza, in altri importanti debutti.
Non ci si dimentica certo di colui che in cartello è titolare dell’opera: Gregory Kunde nei panni di Roberto Devereux. Il fatto stesso che il tenore dell’Illinois riesca a tenere – e in che maniera! – contemporaneamente in repertorio il Verdi della maturità, Otello e Radames giusto per dirne due, e Donizetti e Bellini la dice tutta. Ma al di là della bravura, della musicalità adamantina, dell’acuto lanciato con uno squillo che molti giovani vorrebbero per sè, della padronanza stilistica e della classe indiscutibile, sia in scena che nella linea canora, ciò che colpisce è la generosità – pari solo a quella di un altro “puro folle”, ma baritono: Leo Nucci – ed il carisma. La parte eseguita senza tagli, come del resto tutta l’opera, gli consente pure di esibirsi in variazioni nelle riprese delle strette. Il tutto fatto con estremo gusto. Una prestazione, insomma, che si traduce, nel contempo, in una classe magistrale.
Note positive anche per gli interpreti dei due altri ruoli che in querst’opera hanno pari protagonsimo: Sara, interpretata e cantata con dovizia di colori ed intenzioni apprezzabili dal valente mezzosoprano Silvia Tro Santafé; voce facile all’acuto in un ruolo che è, sostanzialmente, sopranile. Benissimo anche Alessandro Luongo, che usa il suo prezioso strumento baritonale senza mai forzare, cantando con nobiltà e con proprietà, senza cedere al tono villain che pure la parte potrebbe suggerire.
Sufficienti i ruoli di fianco e buona la prestazione del coro ABAO istruito con gesto sicuro da Boris Dujin. Superba la prova dell’orchestra, la Sinfonica di Euskadi, diretta con gesto preciso e grande attenzione all’esigenze di palcoscenico e sostegno delle voci da Josep Caballé-Domenech (a scanso di equivoci: NON è parente…) cui è riuscito mettere in bella luce sia la sinfonia, che Donizetti scrisse in un secondo tempo, che il preludio alla scena del carcere, nel terzo atto, laddove l’esempio beethoveniano del Fidelio non passa inosservato, culminando con una magistrale prova nel superbo finale dove la cantabilità di Donizetti guarda decisamente in avanti.
Infine lo spettacolo, già apprezzato al suo debutto a Las Palmas di Gran Canaria e da là importato, di Mario Pontiggia che firma regia, scene e costumi. Si tratta di un’operazione, oggi come oggi, quasi rivoluzionaria: rendere l’opera nel suo tempo, con i personaggi in costume – e che costumi! – scene corporee, fondali dipinti e proiezioni.
Inutile dire che al pubblico si sono lustrati gli occhi. Si sommi il lavoro di bulino sul personaggio, conferendo ad ognuno coscienza del proprio ruolo e pure quell’introspezione psicologica che si vuole negare a Donizetti, piuttosto che al librettista: Cammarano in questo caso.
Pontiggia possiede, in una parola, la dote che difetta a molti suoi colleghi, anche famosissimi e certamente più trendy, almeno in certi salotti: la cultura; approfondita dallo studio costante non solo dello spartito, ma di tutto il periodo storico in questo specifico caso, con un’analisi attenta e sviscerata dei relativi personaggi, quasi tutti realmente esistiti e con una loro personale storia, sebbene non sia necessariamente quella romanzata nell’opera per motivi, ovviamente, melodrammatici.
La nota del programma di sala, redatta dal regista, una tantum non si è rivelata la “classica” excusatio non petita per giustificare una drammaturgia strampalata, bensì fornisce un saggio storico e musicale degno dell’illustre musicologo, titolo di cui può fregiarsi a piena ragione Mario Pontiggia.
intervista Anna Pirozzi
primo atto
secondo atto
terzo atto