COMO: Don Carlo – Giuseppe Verdi, 8 dicembre 2023

COMO: Don Carlo – Giuseppe Verdi, 8 dicembre 2023

DON CARLO

Opera in quattro atti

Musica di Giuseppe Verdi.

Libretto di François-Joseph Méry e Camille du Locle, tratto dall’omonima tragedia di Friedrich Schiller. Traduzione italiana Achille De Lauzières e Angelo Zanardini

Prima rappresentazione assoluta della versione originale in cinque atti: Parigi, Théâtre de l’Académie Impériale de Musique, 11 marzo 1867. Prima rappresentazione della versione italiana in quattro atti: Milano, Teatro alla Scala, 10 gennaio 1884.


Direttore Jacopo Brusa
Regia Andrea Bernard

Personaggi e Interpreti:

  • Don Carlo, Infante di Spagna Paride Cataldo
  • Filippo II, Re di Spagna Carlo Lepore
  • Rodrigo, Marchese di Posa Angelo Veccia
  • Elisabetta di Valois Clarissa Costanzo
  • La Principessa d’Eboli Laura Verrecchia
  • Il Grande Inquisitore Mattia Denti
  • Tebaldo, paggio di Elisabetta Sabrina Sanza
  • Un Frate Graziano Dallavalle
  • Una voce dal cielo Erika Tanaka
  • Il conte di Lerma / Un araldo Raffaele Feo

Scene Alberto Beltrame

Costumi Elena Beccaro

Luci Marco Alba

Assistente alla Regia Tecla Gucci Ludolf

Maestro del coro Massimo Fiocchi Malaspina

Coro OperaLombardia
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Produzione Teatri di OperaLombardia

 

Teatro Sociale, 8 dicembre 2023


Le ultime due recite  del Don Carlo – versione  italiana in quattro atti – prodotto dal Circuito Lirico Lombardo “Opera Lombardia” approdano al Teatro Sociale di Como e arrivano subito dopo l’apertura della stagione alla Scala il 7 dicembre. Tra Emilia e Lombardia siamo arrivati, in un raggio che non supera i 100 km, ad avere tre produzioni quasi contemporanee. Non si tratta di competizione, d’altronde impossibile, ma di diverse prospettive di divulgazione di un genere che è stato finalmente dichiarato Patrimonio dell’Umanità.

Se la produzione dei teatri emiliani, di cui abbiamo già scritto, rappresenta la tradizione più fedele e quella della Scala (trasmessa in diretta in tutto il mondo) è una celebrazione al vertice dell’istituzione, quella di As.Li.Co. affidata al giovane regista Andrea Bernard, scenografia unica di Alberto Beltrame, costumi di Elena Beccaro, luci di Marco Alba, possiamo definirla “propositiva”. Nel programma di sala il regista dichiara candidamente di non tener conto del libretto quanto d’ispirarsi direttamente con la musica. Percorso azzardato, ma alla fin fine condotto con un’efficace teatralità riconducibile a quel Regie-Theater che ormai rasenta la routine e alcuni inciampi, imputabili il più delle volte ad un eccesso di dettagli fuorvianti e scene forzate ed evitabili. L’epoca è indefinita. Filippo II ci viene presentato come un dittatore di un qualche stato ispanico, dove il clero è più complice che mandatario: il Conte di Lerma è un prelato e l’Inquisitore, su sedia a rotelle e con le cannule per l’ossigeno, sembra piuttosto un “padrino” che un vecchio e cieco frate domenicano. I deputati fiamminghi, così come prima quattro ragazze durante la Canzone del velo, sono i dissidenti e vengono torturati con l’enucleazione di un occhio: marchio che li renderà riconoscibili per sempre. E dunque Eboli? Una partigiana che ha deciso di cambiare banda. Posa, evidentemente, si presta al doppio gioco. Il tutto condito da manifesti e lancio di volantini con la scritta “Libertà” (in spagnolo ci andrebbe una D finale) e “La tierra es nuestra. Manos a las armas”.

Il coro, eccellente di Opera Lombardia agli ordini  di Massimo Fiocchi Malaspina, assiste al tutto schierato su una sorta di balconata che domina dall’alto il palcoscenico sostanzialmente formato da tre quinte sghembe e dove si muovono i figuranti-attori ed i solisti, questi ultimi ben immedesimati nelle relative parti e vocalmente di buon livello complessivo. Il tenore Paride Cataldo in questa concezione ci appare Carlo più romantico, che politicamente integrato; la scena in giardino si svolge presuntamente nella sua stanza, da dove studia le stelle con il telescopio mentre Eboli si intrufola furtivamente e cerca di sedurlo infilandosi nel suo letto. Cataldo possiede una voce di piacevole colore, si destreggia bene nel canto, giusto accento e buon fraseggio pur senza osare il fatidico Si acuto nel concertato dell’Auto da Fe; scenicamente molto valido. Clarissa Costanzo, soprano lirico di buona proiezione, si difende con onore nella parte impegnativa di Elisabetta, ottenendo una grande ovazione dopo l’aria del quarto atto “Tu che le vanità”. Carlo Lepore aggiunge alla sua già notevole carrellata di personaggi quello a cui aspirano tutti i bassi. La voce, peculiare e personalissima nel timbro, gli garantisce la possibilità di eccellere interpretativamente, pure lui integrandosi perfettamente con l’idea registica. Più che un re tormentato da un’anima in pena, tormentato dai dubbi e da tensioni politiche e personali, con la bottiglia di whisky e bicchiere in mano, ormai annoiato dalle attenzioni che la Eboli insinua inutilmente nella scena iniziale del terzo atto, sembra un boss mafioso che medita terribili vendette. Un altro trionfo raggiunto nella scena del carcere, che ovviamente è sempre la stessa stanza, lo ottiene il Posa assai ben interpretato dal baritono Angelo Veccia, dalla voce ampia, potente ed incisiva. Successo che si ripete per la travolgente Eboli di Laura Verecchia, la quale passa così felicemente da Rossini a Verdi. Bene il canto del velo, nonostante la scena di violenza eccessiva che ha spiazzato il pubblico, ottima in “O don fatale” seguito da un meritato e caloroso applauso. Applauso meritatissimo anche quello tributato alla ribalta finale al basso Mattia Denti, finalmente un Inquisitore con tutte le note a posto e valido nell’articolata e decisiva declamazione che la pur breve parte impone.

Note positive anche per i ruoli di fianco: lo squillante tenore Raffaele Feo, Conte di Lerma y Araldo, il Frate dell’altrettanto potente basso Graziano Dellavalle, il Tebaldo (trasformato in una sorta di Kapò delle SS)  del soprano Sabrina Sanza e, infine, la Voce del Cielo del soprano Erika Tanaka, pure impegnata come figurante nella parte della Contessa di Aremberg, la cui colpa è punita, oltre che dalla perdita dell’occhio destro, con la morte. Ma poi risorge per attraversare la scena come un fantasma durante la fine del secondo atto, cantando in primo termine il canto celestiale.

Si è lasciato per buon ultimo l’ottimo lavoro del direttore d’orchestra Jacopo Brusa alla guida della più che lodevole Orchestra I Pomeriggi Musicali. Ritmo narrativo garantito con un procedere spedito, ma senza tralasciare di sottolineare i momenti di espansione lirica. Una garanzia anche l’equilibrato rapporto orchestra palcoscenico. Garantita, infine, la “tinta”, quasi sempre notturna, malinconica e pure misteriosa, soprattutto nell’esecuzione dei preludi del primo, del terzo atto e del quarto.

L’opera, iniziata con una seduta a cui partecipano tutti i protagonisti e dove il Frate ha le vesti di una sorta di giudice supremo, si conclude con un colpo di pistola (il secondo, dopo la morte di Posa) con cui il re uccide la sfortunata moglie, la quale con moto istintivo si frappone tra lui e Carlo. Va riconosciuto che questo finale, in effetti, è senza precedenti.

Andrea Merli

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