BARCELLONA: Tosca – Giacomo Puccini, 7 gennaio 2023
Tosca
opera lirica in tre atti
di Giacomo Puccini
su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Prima rappresentazione si tenne a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900
Direttore Henrik Nánási
Regia teatrale Rafael R.Villalobos
Personaggi e Interpreti:
- Floria Tosca Maria Agresta
- Mario Cavaradossi Michele Fabiano
- Barone Scarpia Željko Lucic
- Sagrestano Jonathan Lemalù
- Spoletta Moises Marin
- Sciarrone Manel Esteve
- Carceriere Milan Perišic
- Pastorello Hugo Bolívar
Scenografia Emanuele Sinisi
Disegno dei costumi Rafael R.Villalobos
Luci Filippo Ramos
Immagini Santiago Ydañez
CoproduzioneThéâtre Royal de la Monnaie, Gran Teatre del Liceu, Teatro de la Maestranza e Salas del Arenal e Opéra Orchestre National Montpellier
Coro del Gran Teatre del Liceu (Pablo Assante, direttore)
Orchestra Sinfonica del Gran Teatre del Liceu
Gran Teatre del Liceu, 7 gennaio 2023
Preceduta da molto rumore mediatico e polemiche causati dal rifiuto di Roberto Alagna e consorte di parteciparvi dopo averne visionato un filmato delle recite al Teatro de La Monnaie di Bruxellles dove ha debuttato la scorsa stagione, approda al Liceu questa Tosca “dello scandalo”, che poi proseguirà la sua strada per Montpellier e per Siviglia.
L’idea infelice di sdoppiare Cavaradossi in Pasolini, di sceneggiare l’incontro con il Pelosi e dunque la morte sul lido di Ostia e di ricreare il climax del film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, il suo ultimo film, semplicemente non funziona né mai potrebbe, così come è risibile pensare di fare di Tosca la Callas. Il regista sivigliano 35enne Rafael Rodríguez Villalobos strumentalizza così il complesso personaggio, di cui è appena trascorso il centenario dalla nascita, a fini autoreferenziali e ne rivela una conoscenza molto superficiale, iniziando dall’errore storico di mettere in scena Pasolini “bambino” ai tempi della Repubblica di Salò, quando ormai aveva superato i 22 anni. Prima dell’inizio del secondo atto l’attore che impersona Pasolini attacca un monologo di “denuncia” cui segue l’approccio con il Pelosi, avvenuto la sera del 1 novembre 1975, al suono della canzone di Fred Buscaglione Love in Portofino. Il marchettaro, ai tempi 17enne, durante il preludio del terzo atto, dietro ad un velario di pretesa caravaggesca (i dipinti sono opera dell’amico Santiago Ydáñez) oltre a uccidere il Poeta funge da pastorello: è un controtenore – scelta quanto meno bizzarra – Hugo Bolivar. Cosa possa aver capito il pubblico del Liceu nel 2023 di un fatto criminoso mai risolto ed irrisolvibile, non è dato sapere. Per quanto mi riguarda è inaccettabile ridurre al suo assassinio e banalizzare una figura per altri versi gigantesca, che con la sua opera di scrittore e di cineasta ha condizionato la giovinezza di chi, come il sottoscritto, ha avuto il privilegio di conoscerlo e di frequentare la famiglia.
La scena è unica, rotante e in bianco e nero, e la firma Emanuele Sinisi. L’azione trascorre senza un preciso filo conduttore, mescolando personaggi (il Sagrestano ritorna alla fine, nega la benedizione a Cavaradossi e, anzi, sputa sul cadavere) ed inventando altri attribuendo addirittura loro dei nomi: Alessandro, Matteo e Tommaso i chierichetti seminudi e sghignazzanti, senza alcun rispetto della drammaturgia originale e, quel che è peggio, senza che vi sia nulla di nuovo, ché tali non possono essere tre corpi nudi piuttosto casti nel secondo atto. Ciò che è assolutamente censurabile, però, è l’interferenza con l’esecuzione musicale: imponendo risatazze ed urli agli interpreti e, quel che è peggio, esigendo che il coro stia fuori scena nella scena con il Sagrestano “Tutta qui la cantoria” e nel Te Deum, obbligando così a ricorrere all’amplificazione, sempre nefasta in teatro, che ha sovrastato le voci dei solisti. Il fatto che il coro ed il suo Maestro Pablo Assante non si siano presentati per gli applausi finali la dice lunga.
Musicalmente, seppure inevitabilmente condizionata dalla regia, è andata meglio. Il direttore ungherese Henrik Nánási, sofferente al braccio destro di una lesione al tendine ed obbligato a tenere un tutore (tant’è che nelle repliche gli si alterna Giacomo Sagripanti) ha condotto l’ottima orchestra con buon ritmo; alcuni tempi sono parsi alquanto allargati, ma non privi di tensione, le dinamiche a momenti piuttosto spinte. Una direzione comunque sicura, attenta al palcoscenico. Dove abbiamo trovato una buona schiera di ruoli di fianco iniziando dall’Angelotti, affaticato dalla corsa ed impaurito nell’accento, caratterizzato dal basso Felipe Bou, gli ottimi Spoletta del tenore Moisés Marín, dalla voce squillante ben emessa, un vero lusso per questo ruolo, e Sciarrone per la voce importante del baritono Manel Esteve, recentemente apprezzato al Teatro de La Zarzuela di Madrid in una parte di spicco. Il baritono neozelandese Jonathan Lemalu si è difeso con risicata sufficienza quale sagrestano e pure il Carceriere del baritono serbo Milan Perisic ha compiuto il suo dovere. Rimane da chiedersi, domanda retorica e sciovinista, se per queste parti non si possano trovare artisti locali.
Alla recita del 7 gennaio gli interpreti principali erano quelli del primo cast: il baritono serbo Zeljko Lucic vanta una carriera ultra ventennale. Il suo barone Scarpia, perfettamente calato nelle perversioni a cui lo obbliga la regia – tra le altre lavare i piedi a Tosca, colare la cera sulla mano, farsi incatenare per un rapporto sadomaso facilitando così a Tosca la pugnalata – di voce ne ha ancora tanta, ma affanna in acuto, prende i suoni da sotto e cala il più delle volte. Il 38 enne Michael Fabiano, tenore del New Jersey, vanta un bel colore solare nel timbro ed è pure dotato di una voce ben emessa e anche estesa. Purtroppo afflitto da un potente raffreddore, si è fatto annunciare malato prima che iniziasse il secondo atto da Victor García de Gomar, direttore artistico del Liceu. In visibile difficoltà nel corso del medesimo, ma pure riuscendo ad intonare un “Vittoria! Vittoria!” con sufficiente vigore, è stato sostituito, senza per altro dare nessun avviso, nemmeno ai colleghi in palcoscenico, dal tenore pugliese Antonio Corianò, previsto per le repliche. Il valoroso artista si è visto scagliato in scena senza avere il tempo nemmeno per scaldare la voce, ma ha reso benissimo “L’addio alla vita” con ricchezza di sfumature e una bella intenzione interpretativa anche nel successivo duettone con Tosca.
Tosca era Maria Agresta, che ha ricevuto un lusinghiero applauso dopo il fatidico “Vissi d’arte” cantato in ginocchio avendo a fianco un figurante nudo e poi, sulle ultime note, strappando un rosario dal collo di Scarpia. La sua Tosca, di bella espansione lirica, è cantata centellinando ogni parola, cercando sempre di offrirne la dizione e l’articolazione più giuste, i giusti accenti. Si scosta dalle Tosche “virago” eccessivamente veriste, per indole oltre che per gusto interpretativo, sebbene qui la regia le imponga delle risate (tremenda quella alla conclusione del cantabile del tenore “Oh dolci mani”, quasi lo deridesse!) che vanno contro la sua stessa natura. Si dirà che poteva opporsi, ma oggi come oggi per qualsiasi artista ciò sarebbe controproducente, verrebbe scalzato da altri pronti a sostituirlo e si guadagnerebbe la fama di “carattere difficile”. La sua Maestra, Raina Kabaivanska, interpellata al telefono è stata laconica: “Dopo un mese di prove DEVE fare quanto le impone il regista o doveva andarsene subito” e poi mi ha ricordato quando a Ginevra, ad una prova di Tosca il genio di turno aveva pensato di farla entrare in chiesa indossando un abito da sera in lamé argentato e farla sedere su una sedia sghemba in cima ad una collinetta: “Raccolsi la mia borsetta, salutai tutti, rientrai in albergo, feci la valigia e me ne tornai a casa”. Altri tempi, cara Raina. Ora i teatri non ti pagano più la pelliccia di zibellino!
Andrea Merli