TEATRO ALLA SCALA: Boris Godunov – Modest Petrovič Musorgskij, 16 dicembre 2022
Boris Godunov
Modest Petrovič Musorgskij
Dramma musicale popolare in quattro parti (versione 1869)
Libretto di Modest Petrovič Musorgskij
Nuova Produzione Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Regia Kasper Holten
Personaggi e Interpreti:
- Boris Godunov Ildar Abdrazakov
- Fëdor Lilly Jørstad
- Ksenija Anna Denisova
- La nutrice di Ksenija Agnieszka Rehlis
- Vasilij Šujskij Norbert Ernst
- Ščelkalov Alexey Markov
- Pimen Ain Anger
- Grigorij Otrepev Dmitry Golovnin
- Varlaam Stanislav Trofimov
- Misail Alexander Kravets
- L’ostessa della locanda Maria Barakova
- Lo Jurodivyi Yaroslav Abaimov
- Guardia Oleg Budaratskiy
- Mitjucha, uomo del popolo Roman Astakhov
- Un boiaro di corte Vassily Solodkyy
Scene Es Devlin
Costumi Ida Marie Ellekilde
Luci Jonas Bøgh
Video Luke Halls
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Teatro alla Scala, 16 dicembre 2022
Non senza polemiche sull’opportunità di inaugurare la stagione con un’opera russa – iniziando dalle proteste del console ucraino e finendo con quelle di coloro che vorrebbero solo autori italiani, la nuova produzione di Boris Godunov, programmata prima dello scoppio della guerra e ovviamente libera da ogni sospetto di simpatia pro-Putin – non dovrebbe essere necessario sottolineare che una cosa è chi governa, un’altra la cultura e storia di un Paese – ha ottenuto un successo trionfale.
È stata scelta la prima versione dell’opera, del 1869, successivamente ampliata e modificata dallo stesso Musorgskij nel 1872. Nel secondo atto manca così la “scena polacca” che, a parte la straordinaria musica, conferisce maggiore coerenza ad un’opera che, di fatto, presenta un affresco storico senza avere un vero e proprio sviluppo drammaturgico. Tuttavia, la proposta, grazie all’ispiratissima direzione di Ricardo Chailly, a capo di un’orchestra che non è esagerato nel definire sensazionale e di un coro superiore a qualsiasi elogio, che in quest’opera assurge al ruolo di vero protagonista, istruito da Alberto Malazzi a cui si sono aggiunte le irreprensibili voci bianche della Scala, a loro volta preparate da Bruno Casoni, si è dimostrata semplicemente perfetta. La ruvidità di un’orchestrazione meno raffinata, i giochi cromatici che scaturiscono dal golfo mistico, la cura rivolta al canto, sostenuto nel suo sviluppo in un declamato musicalissimo, le dinamiche ben bilanciate e una scelta ideale dei tempi, hanno caratterizzato una direzione di grande respiro e, nel contempo, emozionante.
Il cast è parso assolutamente adeguato, anche nella scelta dei ruoli di fianco. A cominciare dal mezzosoprano Maria Barokova, ostessa, Oleg Budaratskiy, basso, che ha dato vita alla guardia al confine lituano, Roman Astakhov, baritono, come Mitjucha nella scena dell’incoronazione davanti al Cremlino e il tenore Vassily Solodkyy, boiardo di corte. Centrati i figli di Boris, Feodor il mezzosoprano (parte spesso affidata una voce bianca) Lilly Jørstad molto credibile nel ruolo della giovane adolescente e il soprano lirico Anna Denisova, dolce Ksenija; bene pure il mezzosoprano Agneszka Rehlis nel cameo della nutrice. L’ottimo baritono Alexey Markov si è dimostrato potente Scelkalov; divertente Misail il tenore Alexander Kravets e molto godibile il grottesco frate Varlam interpretato con vigore e forte temperamento dal basso Stanislav Trofimov.
In ruoli di maggiore rilievo, il basso Ain Anger, Pimen grave e ieratico, il tenore Dmitrij Golovnin, efficace “Falso Dimitri; soprattutto notevole l’ottimo tenore Norbert Ernst, sibillino e mellifluo Sujskij, dotato della giusta vocalità, incisivo per la parte perfida. Il cameo poetico e sognante de “L’innocente”, la “voce della Patria russa” in cui Musorgskij sembra voler rendere omaggio a Verdi, dopo averlo contestato alla prima de La forza, ispirandosi al canto del rivendugliolo nella scena di Velletri, ha trovato una emozionante esecuzione nella voce del tenore Yaroslav Abaimov.
Tuttavia il merito principale dello straordinario successo è dovuto alla prova del basso Ildar Abdrazakov, Boris. Il suo ingresso, seguito dalla “preghiera” nella scena dell’incoronazione ha avuto un primo forte impatto, con una esecuzione centellinata e giocata tutta in un canto interiore, seppure emesso con la giusta proiezione. Ma tutta la seconda parte dell’opera, compresa la scena davanti a San Basilio, lo ha visto primeggiare e raggiungere una statura monumentale. Un canto dove il declamato Musorgskiano, dalle mille ed una sfumature, ottenendo un pathos incredibile tenendo col fiato sospeso tutto il teatro, culminando nella scena della morte, quasi sussurrata con naturalezza e spontaneità prive del benché minimo artificio. Un’interpretazione che rimarrà impressa nella memoria.
La produzione porta la firma del regista Kasper Holten (scene di En Devlen, costumi di Ida Marie Ellekilde, luci di Jonas Bøgr, video di Luke Halls) si tratta di una lettura sostanzialmente tradizionale con un tocco di attualizzazione e come tale rimane nel limbo. Dividendo il Boris in due parti, la prima funziona meglio. La scena è unica, comprende sostanzialmente un grande pannello che si srotola con la storia scritta dai monaci e dove si apre la porta dorata per l’incoronazione e poi vi cadono le sbarre del confine lituano; nella seconda parte i costumi “moderni” (identificabili negli anni ’50 del secolo scorso quello della principessa Ksenija) e l’arredo ridotto ad una camera suite di un hotel cinque stelle, non aiutano a focalizzare l’azione. A cui si aggiunge la presenza costante del piccolo zarevič assassinato, la morte violenta di Boris, pugnalato alle spalle dai sicari inviati da Sukhskij e la comparsa dei doppi dei suoi due figli: il ritorno in scena, minaccioso, del “falso Dimitri” fa intendere che anche a loro è riservata la sorte del piccolo Dimitri. Tuttavia, queste e altre incongruenze, finiscono con l’essere accettate dal folto pubblico accorso alla recita del turno B a teatro praticamente esaurito. Si tratta, comunque, di uno “spettacolone” inaugurale di forte impatto e poi con la frase: “si sono viste cose peggiori” si finisce con fare sempre buon viso. In questo caso l’ascolto ha compensato di gran lunga ciò che visivamente non convinceva.
Andrea Merli