Giuseppe Verdi – Otello – Teatro Regio di Parma, 1 ottobre 2015
Giuseppe Verdi
Otello
Teatro Regio di Parma, 1 ottobre 2015
- Maestro concertatore e direttore: Daniele Callegari
- Regia, scene, costumi: Pier Luigi Pizzi
- Maestro del coro: Martino Faggiani
- Filarmonica Arturo Toscanini
- Coro del Teatro Regio di Parma
- Coro di voci bianche e giovanili Ars Canto “Giuseppe Verdi”
- Otello: Rudy Park
- Jago: Marco Vratogna
- Cassio: Manuel Pierattelli
- Roderigo: Matteo Mezzaro
- Lodovico: Romano Dal Zovo
- Montano: Stefano Rinaldi Miliani
- Un araldo: Matteo Mazzoli
- Desdemona: Aurelia Florian
- Emilia:Gabriella Colecchia
Il Festival Verdi 2015 si è aperto con una nuova, ma tribolatissima nella definizione del protagonista, produzione di Otello.
Il previsto debutto di ruolo di Roberto Aronica, motivo in parte della scelta del titolo, è stato rimandato a data a destinarsi. E facciamo da qui all’amico ed al tenore il più sincero in bocca al lupo con la speranza di riaverlo presto e in gran forma nei nostri teatri. In seconda battuta la scelta è caduta sul tenore canadese Lance Ryan, che per altro in questi giorni è impegnato all’Opera di Budapest proprio con Otello, ma a quanto pare pure lui ha preso la via della finestra. Per salvare i proverbiali capre e cavoli ci si è rivolti in ultimissima istanza al koreano Rudy Park, che per altro la parte di Otello l’ha affrontata in scena per la prima volta lo scorso gennaio al Teatro Peréz Galdos di Las Palmas di Gran Canaria riscuotendo un lusinghiero e franco successo, di cui personalmente ho riferito, con ascolti audio, in “Barcaccia” e quindi scritto sulle pagine del mensile “l’opera”.
Giunto alla “generale”, senza praticamente aver mai provato né musicalmente né registicamente, è stato letteralmente sbattuto in scena lunedì scorso e pare sia andata già benino. Sostenuto da qualche “ripassatina” fuori ordinanza il buon Rudy e così arrivato alla “prima”, sotto i riflettori e le telecamere di Teleducato in diretta streaming, davanti a un pubblico che allineava personaggi di ogni genere e condizione, iniziando dalla sempre brillante e seducente Raina Kabaivanska, elegantissima e ossequiatissima nel bel mezzo della platea e buon ultimo un loggione sempre pronto a far sentire i propri umori. Tenendo conto di questi non indifferenti fattori ed inciampi è andata benissimo, e non solo per lui.
Certamente nervoso, ha siglato un “Esultate” poderoso, ma al di sotto delle sue possibilità, per poi riprendersi già nel duetto con Desdemona che conclude il primo atto. Dal secondo in poi ha dato fuoco alle micce, conquistando la maggioranza del pubblico per la bellezza del timbro, bronzeo e corposo ma con facilità e squillo nell’acuto, e per la ricchezza di armonici che, più volte rimarcato, hanno del fenomenale per la potenza e la sonorità. Il problema, se così si può dire, è calibrare meglio quel torrente di voce che sarebbe troppa anche in Arena a Verona e che l’acustica stessa del relativamente piccolo teatro fa sembrare ancora più forte. E che ci sia stata qualche forzatura nell’emissione è anche vero, imputabile sostanzialmente alla mancanza di prove e alla nulla dimestichezza con un suono orchestrale a tratti soverchiante, un vero muro e non solo per il tenore. Ne ha avuto scapito, a tratti l’intonazione e quindi chi avrà la possibilità di ascoltarlo più sicuro e rilassato nelle prossime recite sicuramente coglierà il meglio dall’artista che, comunque, già così si è impegnato al massimo delle sue ciclopiche forze.
Se da una parte le invettive hanno avuto la prepotenza e la forza di uno tsunami, dall’altra va detto che ha cantato anche a fior di labbra, specie il toccante finale con l’invocazione al bacio. Ma tra le prove di intelligenza interpretativa, oltre a trovarlo nettamente migliorato nella dizione e consapevole nel fraseggio, va sottolineato un dettaglio per tutti. Nel secondo atto, quando ripete con stizza la frase di Jago “Che ascondo in cor, signore?” laddove altri si cimentano spesso con una sorta di birignao falsettistico, Park imita la voce del baritono, con una qualità timbrica addirittura superiore a quella del baritono stesso.
C’è poi chi storce il naso di fronte alla figura quasi mastodontica del tenore. Certo non ha la presenza dell’azzimato capitano, che infatti nell’opera corrisponde a Cassio, ma va anche detto che la regia ed i costumi non l’hanno di certo aiutato: vestendolo con improbabili caftani sin dalla prima scena in cui dovrebbe scendere da una nave di guerra, truccandolo ridicolmente, facendolo camminare scalzo, obbligandolo a pose e movimenti che, proprio per la stazza, era meglio evitargli.
Quindi doppia lode all’Artista che, in simili circostanze è uscito a testa alta e glorioso.
Applaudito ed a ragione Marco Vratogna nel ruolo di Jago. Lo si è ritrovato in piena forma vocale e interpretativamente davvero bravissimo, per approfondimento del ruolo con un fraseggio ricco di sfumature ed intenzioni. Corretti e ben distribuiti i ruoli di fianco: dall’Emilia interpretata dal mezzosoprano Gabriella Colecchia, che nel grande concertato del finale terzo ha avuto modo di emergere con una vocalità piena e rigogliosa, all’educato Cassio del tenore Manuel Pierattelli, dal bel timbro giovanile. Bravo Matteo Mezzaro, Roderigo e discreti gli altri. Lasciata buona ultima del cast la Desdemona di Aurelia Florian, che si ricordava promettente soprano in una relativamente recente edizione de La battaglia di Legnano, qui al Regio. A parte la dizione pressoché incomprensibile ed abborracciata, la voce ora le suona spesso “indietro”. Ha alternato ad un’intonazione spesso incerta, acuti aperti e suoni spoggiati. Anche i piani e pianissimi sono risultati dei suoni flebili e pigolanti. C’è da sperare che si tratti di una crisi momentanea, ma più a chi le ha gridato “brava” brava tra gli applausi finali, dovrebbe far caso ai buh crudeli dall’alto del loggione e dei palchi: dovrebbero far riflettere e farle trovare la forza per un momento di pausa e di studio.
Buh sono fioccati, ancor più rumorosi e compatti, alla comparsa di Pierluigi Pizzi, che ha firmato regia, scene e costumi. Pietà, rispetto ed amore non fanno parte della attuale vita teatrale e questo Otello è parso vecchio e datato nel nascere. Delude chi s’aspetta il “teatro di regia”, poiché è convenzionale e non esente da errori macroscopici: valga l’esempio del fazzoletto sbandierato subito da Desdemona e che Cassio, addirittura, prende in mano ed osserva al primo suo incontro, non accontenta chi pretende un teatro iconograficamente fedele al libretto. Tolta la prima scena, che seppur minimale ha un suo perché grazie anche alla sapiente illuminazione ed all’uso di fiamme vere nei fuochi e in un altissimo faro, il resto dell’azione si svolge tra tre claustrofobiche mura chiuse da altrettante porte nere. Nemmeno i costumi sono parsi particolarmente azzeccati, e non solo quelli del povero protagonista. Desdemona è abbigliata con una sorta di camicia da notte e quando, finalmente, ne indossa una per addormentarsi risulta più vestita di prima. Insomma, certo le contestazioni si potevano evitare perché non solo a Parma si è visto in giro di peggio, ma tant’è: è andata così.
Dulcis in fundo la prestazione del coro, finalmente tornato sotto la guida del bravissimo Martino Faggiani e pure quello di voci bianche, affidate alle cure del soprano Gabriella Corsaro: bravissimi tutti. Un po’ meno l’orchestra, con qualche affanno e con decibel di troppo, nonostante la solerte e dinamicissima direzione del buon Daniele Callegari che, pure lui tra un tenore e l’altro, aggiusterà sicuramente il tiro in corso di repliche.
Andrea Merli
primo atto
secondo atto
terzo atto
quarto atto