TEATRO ALLA SCALA: AIDA – Giuseppe Verdi, 9 ottobre 2020
Giuseppe Verdi
Aida
Direttore Riccardo Chailly
Esecuzione in forma di concerto
Personaggi e interpreti:
- Il Re Roberto Tagliavini
- Amneris Anita Rachvelishvili
- Aida Saioa Hernández
- Radamès Francesco Meli
- Ramfis Jongmin Park
- Amonasro Amartuvshin Enkhbat
- Messaggero Francesco Pittari
- Sacerdotessa Chiara Isotton
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Maestro del Coro Bruno Casoni
Teatro alla Scala, 9 ottobre 2020
Tra mille patemi legati al dilagare indefesso della pandemia e la possibilità di vedere applicati ventilati decreti che dovrebbero ridurre a duecento i posti nei teatri al chiuso, il ché equivale alla morte dei medesimi, il Teatro alla Scala procede nel quotidiano, ché del doman -oggi men che meno- non v’è certezza, programmando una serie di repliche di Aida, proposta in forma concertante.
La novità è costituita dal fatto che si offre il primo ascolto in tempi moderni, anzi dopo la “prima” del Cairo, dell’incipit del terzo atto che poi Verdi modificò nell’agosto del 1871, sostituendo il canto a cappella dei sacerdoti, poco “egizio” a dire il vero e piuttosto monacal-medievale “alla Palestrina”, con il magnifico preludio, in cui pare di sentire fluire il Nilo, aggiungendo una tra le più belle (e difficili) arie in assoluto del suo vasto repertorio: “cieli azzurri”. Ora, soddisfatta questa curiosità, si può tranquillamente ritornare alla volontà dell’Autore e cioè alla versione universalmente nota.
Se da un parte la forma di concerto permette di concentrarsi esclusivamente sul versante musicale senza possibilità di essere distratti da spettacoli con regie più o meno convenzionali, dall’altra il distanziamento obbligatorio per colpa del virus ha comportato alcuni squilibri sonori. In primis risulta penalizzato il coro, effettivamente piazzato lontanissimo e molto diluito nello spazio, che pur cantando benissimo grazie alla preparazione perfetta del Maestro Bruno Casoni, giustamente molto festeggiato alla ribalta finale, è parso a tratti troppo in secondo piano. Così pure il canto della Sacerdotessa, la pur bravissima Chiara Isotton che si presta in Scala a un comprimariato di lusso, quando in verità è un’eccellente soprano ed un’ottima artista in ruoli primari, è parso sì ispirato e trascendentale, ma altrettanto distante. Stessa sorte nella scena del giudizio al quarto atto, laddove il pur potente basso koreano Jongmin Park, dotato di una voce sonora, scura e ricca di armonici, quasi spariva fuori scena.
Infine, il cercare di rendere una impossibile regia, con le entrate ed uscite dei solisti a tempo, facendoli pure, seppure senza mai toccarsi, avvicinarsi e muovere simulando una minima azione, ha comportato, almeno per chi stava seduto lateralmente in platea, dei piani sonori diversi per cui, nella fattispecie, si sentivano prevaricanti i solisti che ci cantavano di fronte. In questi casi sarebbe opportuno fare dei test in fase di prova e, comunque, visto che concerto è e dunque, né gli egiziani o gli etiopi vestono in frac, né la schiava Aida presumibilmente si mostra in lungo con ricami lamé e brillanti (elegantissima, tra parentesi, la bella Saioa Hernandez che ricorda un po’ Grace Kelly) tanto valeva piazzarli tutti allineati in posizione fissa.
Nonostante ciò si è trattato di una serata gloriosa, degna di quel gran Teatro quale si vanta di essere la Scala. Innanzi tutto per la prova superlativa del coro e dell’orchestra, i quali in questo repertorio non temono paragoni. Il Maestro Riccardo Chailly ha condotto in maniera altrettanto ideale ed appagante. E’ stato un vero spettacolo poter seguire il suo gesto, che i solisti in proscenio seguivano invece dai monitor dandogli le spalle. Deciso e preciso, elegante e misurato: una delle sue prove più esaltanti con una lettura che ha permesso di godere ancor di più della bellezza dei ballabili, per esempio, senza tralasciare né il ritmo, né perdere mai la tensione sia nei momenti di maggior concitazione, il concertato del primo atto e tutta la scena trionfale, sia nelle oasi liriche che in questo spartito appaiono dove meno te le spetti, anche e soprattutto in frasi isolate in un duetto o in un concertato. Il tripudio di applausi che lo ha accolto alla fine è stato condiviso da tutto il prestigioso e assolutamente centrato cast. Iniziando dall’ottimo messaggero, dalla voce ben impostata del tenore Francesco Pittari che nel suo breve intervento si è fatto molto apprezzare, seguendo con i due bassi: di Ranfis si è detto. Piace sottolineare la bellissima prova di Roberto Tagliavini, autorevole e regale nella dizione e nel fraseggio, Faraone di grande statura in tutti i sensi.
Amartuvshin Enkhbat, il baritono della Mongolia, ha fatto con Amonasro il suo debutto in Scala: debutto felicissimo. In lui si ammira l’ampiezza della voce, avvolgente, morbida, estesa e pur brunita da far equivocare alcuni che lo hanno scambiato addirittura per un basso! A tal punto si è arrivati che non si riconosce più un’autentica voce baritonale, una di quelle che lasciano il segno. Censurargli l’espressività è un altra esagerazione. Certo non è un Amonasro che sbraita, è un “barbaro invasore” è vero, ma pur sempre un re. Infine, nel duetto con Aida del terzo atto mi ha veramente emozionato e con ciò concludo. Altra bella prova quella di Francesco Meli, che delinea un Radames innamorato, propenso al canto a fior di labbra (pericolosissimo soprattutto a freddo nell’aria di sortita) alle mezze voci, sfruttando una tavolozza di colori molto ricca di sfumature. Non delude certo nel versante dell’eroico guerriero che deve essere ed è, con accenti scanditi ed ardenti, con un fraseggio nobile e coturnato. Pregevole nel tempio di Vulcano, poi veemente nel duetto con Aida nel terzo atto, perfetto nella scena che precede il giudizio e melanconico, quasi trasognato nel finale sotto la fatal pietra. Una gran bella prova la sua.
Infine la protagonista, Saioa Hernandez, in una recita in crescita dove ha tirato subito fuori le zampate feline dell’interprete già nel duetto con la rivale nel secondo atto. E’ pur vero che ha dovuto sacrificare “Cieli azzurri”, di cui si è sentita tanto la mancanza, ma ha dato il meglio di sé con una espressività nel canto ed una partecipazione emotiva fortissima nei duetti, prima col padre – commovente nell’implorazione della figlia – e poi con Radames, con una seduzione oltre che vocale fisica. Bravissima e pure lei, alla fine, applauditissima.
Un’altra di quelle serate in cui si esce da teatro con l’adrenalina alle stelle. Dovrebbe essere sempre così, covid o non covid permettendo.
Oddio la mia testa! Colpa la fretta ho dimenticato imperdonabilmente di scrivere… della trionfatrice della serata, Anita Rachvelishvili. La sua Amneris si impone per la dovizia sonora e una qualità di voce che ci rimanda agli anni d’oro di una Cossotto e della Dimitrova. Lunge dall’essere monolitico, il suo temperamento infuocato si stempera anche in struggente spasimo di amore e gli sbalzi di umore della altera figlia del Faraone sono resi con una efficacia teatrale che va ben oltre l’inevitabile piattezza del concerto. Si impone nei concertati e deve sforzarsi, riuscendovi, a trattenere il fiume di voce per non coprire gli altri. Le si sono rimproverate alcune discese di suono nel petto, ma a mio modesto avviso erano ampiamente giustificate dalla situazione, dal procedere nell’espressione della parola cantata, scandita alla perfezione. Una Amneris, insomma, che giustificherebbe il cambio del titolo. E tanto basti.
Andrea Merli