TEATRO ALLA SCALA: TOSCA – Giacomo Puccini, 13 dicembre 2019

TEATRO ALLA SCALA: TOSCA – Giacomo Puccini, 13 dicembre 2019

TOSCA

Melodramma in tre atti

di Giacomo Puccini

Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa

(Nuova edizione critica a cura di R. Parker; Casa Ricordi, Milano)

 Nuova produzione Teatro alla Scala

 

 

Direttore RICCARDO CHAILLY

Regia DAVIDE LIVERMORE

 

Personaggi e interpreti

  •  Floria Tosca  Anna Netrebko
  • Mario Cavaradossi Francesco Meli
  • Il barone Scarpia Luca Salsi
  • Angelotti Carlo Cigni
  • Sagrestano Alfonso Antoniozzi
  • Spoletta Carlo Bosi
  • Sciarrone Giulio Mastrototaro
  • Un carceriere Ernesto Panariello

Scene GIÒ FORMA

Costumi GIANLUCA FALASCHI

Luci ANTONIO CASTRO

Video D-WOK

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala

 

Con la partecipazione del Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala

 

Maestro del Coro e del Coro di Voci Bianche BRUNO CASONI

 

Teatro alla Scala, 13 dicembre 2019


“Potevamo stupirvi con effetti speciali” così recitava negli anni ’80 dello scorso secolo lo spot pubblicitario di un nota marca tedesca di televisori. La Tosca che ha inaugurato la stagione scaligera ne è parsa la diretta conseguenza. Ogni artifizio possibile, scenografico, tecnico, video, digitale, tutte le possibilità che offre il rinnovato palcoscenico scaligero sono state messe a dura prova nella realizzazione di questo “Kolossal immersivo” – parole testuali della coordinatrice del gruppo Giò Forma, responsabile delle scene, Cristiana Picco – che ha impegnato per oltre due mesi circa 200 operatori, e che è approdato a ciò che si richiede sostanzialmente per la “prima” di Sant Ambrogio: qualcosa di monumentale, di stupefacente, che stordisca visivamente lo spettatore. In questo senso l’operazione è riuscita perfettamente.

Un primo atto che ha visto un frenetico via vai e sali scendi di scene, quadri, carrelli con candele spinti da suorine su un palcoscenico girevole, un Te Deum in cui, per difetto, si sono contati almeno tre papi, quando quello vero storicamente era rifugiato a Gaeta, e tutti le possibili varianti di abito religioso, dai Padri della Chiesa in avanti, comprese delle improbabili guardie svizzere. Un secondo atto spostato su vari fronti e livelli, sempre infestato dalle servizievoli suore, con camera di tortura a vista e torturatori, in primis il Barone Scarpia, in orbace: e già, si parla di “regia militante”, dunque i “cattivi” hanno da essere inequivocabilmente Camice Nere fasciste. Infine un terzo atto con gli spalti di Castel Sant’Angelo sovraffollati, e la caduta di Tosca al rallenty (molti l’hanno scambiata per l’ascesa in cielo) ovviamente inscenata da una comparsa, mentre la titolare si accucciava dietro l’incombente ala del falco, scultura approntata da Achille Picco, padre della su citata Cristiana.

Si passa così dal minimalismo e dalla ormai abituale trasposizione d’epoca, che c’è ma solo fino ad un certo punto, ad un gigantismo ipertrofico e pachidermico, dove ci si preoccupa di disporre un notevole bric a brac di oggetti, non sempre attinenti né per epoca, né per stile e men che meno per urgenza teatrale, più che alla recitazione del singolo; tolte alcune “originalità” quasi sempre fuori luogo (Tosca entra senza fiori e li prende da un altro altare per infiorare la Madonna, che poi è quella  di Gian Battista Salvi, detto Sassoferrato), per quanto riguarda la protagonista almeno pare lasciata al suo libero arbitrio. Si sorvoli sui costumi dell’altrove apprezzato Gianluca Falaschi, brutti di foggia e pessimi per accostamento di colori e sulle proiezioni “animate” dei video D-Work, quadri viventi ispirati al Carracci, ma che a più di uno hanno ricordato quelli del collegio di Harry Poter.

Musicalmente la tanto attesa e discussa “prima versione” ha riservato poche sorprese che all’ascoltatore distratto (anche dalla messinscena) sono passate senza colpo ferire. Il Maestro Riccardo Chailly, alla terza recita a cui ci si riferisce, ha condotto con estrema efficacia gli splendidi organici della Scala, orchestra e coro, istruito da Bruno Casoni, ivi comprese le ottime voci bianche. Il suono opulento l’enfasi è stata ben compensata da ampie oasi liriche, alcune un po’ estenuanti per i fiati dei cantanti specie al primo atto, ma di sicuro effetto.

Come ben ha sottolineato Raina Kabaivanska, intervistata in diretta la sera della “prima” nel foyer, Anna Netrebko è “una diva, e come tale la si ama o la si odia” senza possibilità di mezze misure. Personalmente la amo tantissimo, e la sua presenza in scena mi risulta catalizzante. Va anche detto, però, che la sua interpretazione, che pure ha sollevato prevedibili entusiasmi in sala dopo un emozionante “Vissi d’arte”, non è del tutto risolta: non è la “diva” liberty alla Francesca Bertini, che potrebbe pur essere un cifra di lettura poiché si tratta di “Una diva che fa la diva” (cit. Kabaivanska) né ”l’agil leopardo” intravisto da Scarpia, rimanendo sempre e solo sé stessa. Il ché, di per sé, potrebbe essere più che sufficiente, ma non in questo caso. Luca Salsi canta assai bene, ma non gli riesce di sembrare il “cattivo”, di incutere il terrore che il solo nome di Scarpia, bigotto satiro e confessore e boia, dovrebbe suscitare.

La relativa sorpresa, dunque, ce la riserva Francesco Meli, un Cavaradossi in partenza fin troppo lirico, ma più che sufficiente nei due punti nevralgici de “la vita mi costasse” al primo atto e del “Vittoria!” al secondo, entrambi risolti bene musicalmente e per tenuta nell’acuto. Per abbigliamento il meno penalizzato, è letteralmente “esploso” nel terzo atto, con un “Addio alla vita” emozionante e cantato con grande trasporto e poi nella non facile impresa di fingersi allegro con l’amata Floria, seppure consapevole che le armi puntate non saranno certo scariche. Questa, va detto, l’unica vera e valida, seppur non nuova, idea registica. Bravissimo nel fraseggiare, nel dare colori non solo alla Maddalena (tra parentesi, di Guido Reni) e sfumature alla frase musicale. Bene ha fatto Chailly a interrompere l’orchestra per consentire, finalmente, uno scrosciante applauso a scena aperta.

Bene i ruoli di fianco, iniziando dall’ottimo Angelotti di Carlo Cigni, seguendo con il Sagrestano di Alfonso Antoniozzi, il più sonoro di tutti e che ne realizza una perfetta macchietta con pronuncia ed intenzioni da vero abitante della Tuscia, lo strisciante Spoletta di Carlo Bosi (bullizzato dai suoi scagnozzi!), lo Sciarrone di Giulio Mastrototaro, il veterano e sempre affidabile Ernesto Panariello, un carceriere e il buon pastorello con la voce bianca di Gianluigi Sartori.

Scala, come no, affollatissima.

Andrea Merli

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