TEATRO ALLA SCALA: DIE TOTE STADT – Erich Wolfgang Korngold, 10 giugno 2019
Die tote Stadt
Opera in tre quadri
di ERICH WOLFGANG KORNGOLD
Libretto adattamento del romanzo “Bruges-la-morte” di Georges Rodenbach
di Paul Schott
(Editore Schott Music GmbH & Co. KG, Mainz;
rappr. per l’Italia Sugarmusic – Edizioni Suvini Zerboni, Milano)
Prima rappresentazione: Amburgo, Stadttheater, 4 dicembre 1920
Nuova produzione Teatro alla Scala
Prima esecuzione al Teatro alla Scala
Direttore ALAN GILBERT
Regia GRAHAM VICK
Personaggi e interpreti principali
- Paul Klaus Florian Vogt
- Marietta / L’apparizione di Marie Asmik Grigorian
- Frank / Fritz Markus Werba
- Brigitta Cristina Damian
- Juliette Marika Spadafino*
- Lucienne Daria Cherniy*
- Gaston / Il conte Albert Sascha Emanuel Kramer
- Victorin Sergei Ababkin*
Scene e costumi STUART NUNN
Luci GIUSEPPE DI IORIO
Coreografia RON HOWELL
CORO E ORCHESTRA DEL TEATRO ALLA SCALA
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Maestro del Coro e del Coro di Voci Bianche BRUNO CASONI
*Allievi Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala
photo credits Brescia Amisano
Teatro alla Scala, 10 giugno 2019
Una vera e propria “korngoldite” si è abbattuta sulla Scala e, a quanto pare, ha colpito pure il Teatro Regio di Torino dove la prossima stagione è in programma Violanta, seconda opera composta dal compositore austriaco di Brno (oggi in Slovacchia) naturalizzato americano dal 1943, che vide le luci della ribalta all’Opera di Stato di Monaco di Baviera nel 1916, novità assoluta per l’Italia.
Viceversa La città morta, che arriva finalmente alla Scala e che di Erich Wolfgang Korngold è considerata, giustamente, il capolavoro teatrale, ha avuto più fortuna, comparendo in tempi relativamente recenti a Catania prima e a Venezia dopo. Data in prima assoluta nel 1920, contemporaneamente all’Opera di Amburgo ed all’Opera di Stato di Colonia diretta dal giovane Otto Klemperer, non si può che rimanere sbalorditi dalla precocità ed inventiva musicale del 23enne Korngold, fresco delle lezioni ricevute da Alexander Zemlinsky; compositore e coautore pure del libretto, tratto dal romanzo breve di Geroges Rodenbach “Bruges-la-Morte”, scritto a quattro mani col padre Julius che lo firmò sotto lo pseudonimo Paul Schott. Pervaso da un ricco cromatismo ed in stile tardo romantico, lo spartito si rivela un ecclettico omaggio a Puccini e soprattutto a Richard Strauss, di cui Korngold rappresenta l’epigono più fedele e felice.
Avversato per molti anni dalla critica che, come al solito, non gli perdonò la popolarità raggiunta con le colonne sonore dei film di Hollywood che gli valsero ben due premi Oscar (destino, quello di avere l’intellighenzia musicale contro, che lo ha accomunato per lo stesso motivo a Nino Rota) oggi Korngold e la sua Città morta sono assolutamente sdoganati. Ogni ripresa di Die Tote Stadt, soprattutto all’estero, è contrassegnata da un’accoglienza trionfale, tanto di pubblico come degli addetti ai lavori.
Successo che ha accolto anche questa nuova produzione scaligera caratterizzata da una versione musicale assolutamente encomiabile e superlativa. Per la bellissima prova fornita dall’orchestra, nonché dal coro come sempre istruito benissimo da Bruno Casoni con la partecipazione del Coro di Voci Bianche dell’accademia del Teatro alla Scala, diretta con brillante risultato dall’ottimo Alan Gilbert e per la presenza di un cast che ha rasentato la perfezione con il pur bravo tenore Klaus Florian Vogt, alle prese con il temibile ruolo di Paul, il vedovo inconsolabile e feticista, la cui tessitura, al pari di quelle dei vari tenori straussiani, veleggia sempre in zona impervia e che, in una parte piagnucolosa, risulta assai plausibile per timbro e fraseggio rispetto ai Sigmund wagneriani, che pure Vogt canta tra il plauso generale. L’ha raggiunta il bravissimo baritono Markus Werba, nei panni dell’amico Fritz e quindi nella canzone di Pierrot, uno dei momenti memorabili dell’intera esecuzione, l’ha superata senz’ombra di dubbio la stupefacente Asmik Grigorian, soprano che ha debuttato felicemente alla Scala calandosi nei panni di Marietta, la ballerina frivola e disincantata, come in una seconda pelle. Vocalmente e musicalmente ineccepibile, meravigliosa come attrice ed interprete e festeggiatissima alla ribalta finale, dove sono stati accolti da calorosi applausi pure la valida governante Brigitta, Cristina Damian, il Conte Albert nonché Gaston, Sascha Emanuel Kramer, le ballerine Juliette e Lucienne, rispettivamente Marika Spadafino e Daria Cherniy, il regista Victorin di Sergei Ababkin e la voce del quintetto, intonata da Hwan An.
Sullo spettacolo, accolto da tutti con pieno consenso, lascio la parola al Maestro Francesco Maria Colombo che su Facebook ha espresso con lunga disanima il suo giudizio che personalmente condivido al cento per cento e di cui qui riporto solo alcuni passi: “L’uomo più intelligente che mai si sia occupato di teatro musicale, Giuseppe Verdi, disse tutto con una sola parola: la tinta. […] Die Tote Stadt ha una tinta precisissima, che deriva da Rodenbach e che Korngold coglie in pieno: la tinta spenta, autunnale, maligna, che sale dalle acque di Bruges e si infiltra in ogni dove. Questa tinta pervade la trama e pervade la musica. E di questa tinta nella regia di Vick non c’è, letteralmente, nulla, come se dall’opera fosse stato rimosso il personaggio principale. Cosa ne prende il posto? Luce sparata, salti, schiamazzi, ghirigori brachilogici, scavalcamenti di divani, rovesciamenti di poltrone, e poi, spiace dirlo, tutto il bric-à-brac visto miglia di volte di copulazioni, travestitismo, nazisti in scena e cotillon. Nazisti in scena? Nel 2019? Non nel 1974 del “Portiere di notte” ma proprio nel 2019? […] A me la regia non è piaciuta perché l’ho trovata vecchia. Il punto è che di fronte ad ogni testo si può agire 1) tenendo presente la grammatica, la sintassi, la struttura del testo medesimo, 2) astraendo per creare qualcosa di radicalmente indipendente. Per chiarire a che punto Vick abbia scelto questa seconda strada basterà […] notare che il rapporto di fascinazione, di seduzione continuamente smentita, di dubbio, di inganno, di sospetto, di smarrimento, che in Rodenbach e in Korngold lega Paul a Marietta (la donna che gli ricorda la moglie morta) qui non c’è proprio. […] Tutta la dinamica delicatissima del rapporto, così come Rodenbach la intesse, qui è spazzata via”.
Scene di Stuart Nunn, luci di Giuseppe Di Iorio, coreografia di Ron Howell, giusto corollario e totalmente complementari alla regia.
Andrea Merli