TEATRO ALLA SCALA: ALI’ BABA’ E I QUARANTA LADRONI, 5 settembre 2018
ALÌ BABÀ E I QUARANTA LADRONI
Tragedia lirica in un prologo e quattro atti
Libretto di Mélesville e Eugène Scribe
Musica di LUIGI CHERUBINI
Edizione proprietà Fondazione Teatro alla Scala
Prima rappresentazione assoluta della versione francese:
Parigi, Opéra Garnier, 22 luglio 1833
Nuova produzione Teatro alla Scala
Direttore PAOLO CARIGNANI
Regia LILIANA CAVANI
Personaggi e interpreti principali
- Alì Babà, ricco negoziante Alexander Roslavets, Paolo Ingrasciotta
- Delia, figlia di Alì Babà Enkeleda Kamani, Francesca Manzo
- Morgiane, schiava di Delia Alice Quintavalla, Marika Spadafino
- Nadir, amante di Delia Riccardo Della Sciucca, Hun Kim
- Aboul-Hassan , capo della Dogana Maharram Huseynov, Eugenio Di Lieto
- Ours-Kan, capo dei briganti Rocco Cavalluzzi, Maharram Huseynov
- Thomar, suo luogotenente Gustavo Castillo, Lasha Sesitashvili
- Calaf , tesoriere dei briganti Chuan Wang
- Phaor, maggiordomo di Alì Ramiro Maturana
Scene LEILA FTEITA
Costumi IRENE MONTI
Coreografia EMANUELA TAGLIAVIA
Luci MARCO FILIBECK
Solisti dell’Accademia di Perfezionamento per Cantanti lirici del Teatro alla Scala
Coro e Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala
Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala
Teatro alla Scala 5 settembre 2018
Per la seconda volta alla Scala, dopo il debutto dell’undici giugno 1963 nella (brutta) versione italiana di Vito Fratti, torna Alì Babà ed i quaranta ladroni di Luigi Cherubini, titolo con cui il 73enne compositore fiorentino pose fine alla sua lunga carriera operistica coronata dall’indiscusso capolavoro Medea del 1797.
“Scritta dopo il Guillaume Tell di Rossini, denigrata da Berlioz, criticata da Mendelssohn” cito il saggio dell’autorevole Franco Pulcini “Alì Babà non giungeva tardi nel clima romantico, ma lo avversava in modo polemico, alla ricerca di un perduto equilibrio classico, in seno a un ambiente che andava altrove. […] L’opera non piacque in Francia, né in Italia, ma ebbe ottima diffusione in Germania, dove è molto apprezzata la dottrina compositiva”.
E con ciò si dice tutto. E si comprende così perché il monolitico Brahms pretese di essere sepolto con un ritratto di Cherubini nella bara, Beethoven lo considerasse il suo contemporaneo di maggior valore e godesse della stima incondizionata di Wagner, che lo ritenne tra i pochi operisti italiani da tenere in considerazione. Dopo una crisi creativa che lo prostrò dalla fine del primo decennio dell’Ottocento, Cherubini ormai francese a tutti gli effetti ritornò all’opera nel 1833 con questa fiaba, alla ricerca di un tempo perduto, di un passato ormai remoto. La “gigantesca operona”, così la definisce il Pulcini, rimane difficile da classificare: un grand-opéra buffo arricchito di turcherie musicali? In tal caso in forte ritardo sui titoli rossiniani che raggiunsero ben altre vette musicali e teatrali. Manca sostanzialmente a Cherubini il dono di un canto melodico che abbia una sua compiutezza. E’ vero che in quest’opera si pretende evitare, nella successione dei brani la formula del pezzo chiuso, che poi in realtà sopravvive in forma di arie, duetti, ecc. costruiti con indubbio impegno in una partitura massiccia, elaborata ed anche raffinata, ma la resa sulla scena si dimostra priva di verve, seriosa, in una parola: noiosa ai più.
Va detto che la proposta, affidata ai “cadetti” dell’Accademia della Scala, ha avuto una sua apprezzabile valenza e dignità. Innanzitutto lo spettacolo, affidato alla sapienza della docente Liliana Cavani, scorre senza intoppi nella sua didascalica esposizione della trama, che si concede l’unica “modernità”, durante la sinfonia e quindi in chiusura, di presentare i quattro principali protagonisti quali frequentatori di una biblioteca (dell’Accademia?) come è dato pensare facciano realmente nel quotidiano. Per il resto si rimane immersi nel clima della fiaba che vede trionfare l’amore di Nadir per Delia, la figlia di Alì Babà, qui identificato in un ricco contrabandiere di caffè. Belle le scene di Leila Fteita, ricchi i costumi di Irene Monti, graziose le coreografie di Emanuela Tagliata e luci affidate alla sapienza di Marco Filibeck.
Nel versante musicale, l’orchestra ed il coro dell‘Accademia – quest’ultimo ben ammaestrato da Alberto Malazzi – hanno risposto alla bacchetta di Paolo Carignani, al suo tardivo debutto sul podio scaligero dopo aver occupato quelli di mezzo mondo. Una direzione convincente, che ha reso al meglio l’aura classicheggiante, a tratti mozartiana, che pervade lo spartito tenendo strette le briglie di un organico giovane e recalcitrante: qualche sbavatura dei corni ci sta pure. Il cast è parso omogeneo e preparato. Tenendo conto delle difficoltà delle parti, laddove cinquantacinque anni fa erano impegnati niente popò di meno che Alfredo Kraus, Teresa Stich-Randall, Orianna Santunione, Wladimiro Ganzarolli, Paolo Montarsolo, Agostino Ferrin e Piero De Palma tra gli altri, senza tentare inutili paragoni (esiste la registrazione di quella fortunata serata) tutti se la sono cavata egregiamente. Iniziando dal bravo protagonista, il bass-bariton Alexander Roslavets, passando alla trepidante Delia di Francesca Manzo, all’apprezzabile Morgiane di Alice Quintavalla, al tenebroso Aboul-Hassan capo della dogana, di Eugenio Nieto e così via.
Una bella sorpresa, e sinceramente è ciò che ha mantenuto desto l’interesse della serata trascorsa davanti a una sala semi vuota e ancor più deserta dopo il primo atto, è stata la prestazione di Riccardo Della Sciucca (forse ancora in tempo per trovarsi un nome d’arte) nei panni di Nadir. Lo si era già notato quale messaggero nell’Aida nell’ultima ripresa scaligera. Favorito qui da una parte che gli calza a pennello, ha dimostrato oltre che un’invidiabile sicurezza in acuto, generoso e squillante, nobile linea musicale, gusto e raffinatezza nel fraseggio e tutto ciò impreziosito da un’importante presenza scenica che ne fanno un elemento da non perdere d’occhio.
Andrea Merli