Verona, 20 luglio 2018: NABUCCO – Giuseppe Verdi

Verona, 20 luglio 2018: NABUCCO – Giuseppe Verdi

Direttore d’Orchestra Jordi Bernàcer

Regia e Costumi Arnaud Bernard

  • Nabucco Amartuvshin Enkhbat
  • Ismaele Luciano Ganci
  • Zaccaria Rafał Siwek 
  • Abigaille Rebeka Lokar 
  • Fenena Géraldine Chauvet 
  • Gran Sacerdote di Belo Nicolò Ceriani 
  • Abdallo Roberto Covatta 
  • Anna Elisabetta Zizzo

Scene Alessandro Camera

Lighting design Paolo Mazzon

Orchestra, Coro e Tecnici dell’Arena di Verona


La produzione è quella che destò un certo scalpore l’anno scorso, quando debuttò in Arena: le esplosioni di bombe, cannoni e le sparatorie a salve dei fucili durante le prove e senza avviso previo alla Prefettura, provocarono l’allarme di polizia, carabinieri ed esercito, che vegliano sulla sicurezza del frequentatissimo “Liston“, la passeggiata cittadina che costeggia l’Arena; si pensò, ovviamente e dati i tempi, ad un attentato. Motivo per cui, ancor oggi all’inizio di ogni atto, un comunicato trilingue avverte il pubblico che le esplosioni fanno parte dell’allestimento.

Uno “spettacolone”, un Nabucco “irredentista” trasportato ai tempi delle insurrezioni milanesi delle fatidiche “Cinque Giornate“ quando, tra il 18 ed il 22 marzo del 1848, la città insorse e cacciò gli austrici, ne seguì una tremenda repressione, capeggiata dall’ottantaquattrenne generale Radetzky e poi la prima guerra di indipendenza del nostro Risorgimento nazionale.

La scena, realisticamente costruita, rappresenta uno spaccato del Teatro alla Scala che, girando su sé stesso, mostra sia l’esterno che l’interno e pure un salone ottocentesco in cui avviene buona parte dell’azione. La quale, come in un film western, avviene più spesso sui fianchi della scena e sulle gradinate con grande dispendio di figurazione; grandi cavalcate di imponenti corazzieri, carrozze e carri, barricate e popolo. Questo “spaghetti-Nabucco”, fantasiosamente adattato ad una realtà storica che con la trama, evidentemente, non ha nulla da spartire, piace e tiene desta l’attenzione del grande pubblico, provocando non poche perplessità in chi la storia – quella “vera” e quella “finta”, cioè la trama dell’opera – conosce bene. Facendo appello alla storia, ma quella del cinema e specificamente con una citazione di “Senso” di Luchino Visconti, il regista che è pure costumista, Arnaud Bernard conclude bellamente l’operazione al grido “Viva l’Italia” e dunque si finisce allegri e contenti e anche, tutto sommato, molto divertiti. Fenena risulta una sorta di Contessa Serpieri, ma ovviamente austriaca, innamorata di un patriota, Ismaele, che viene trucidato davanti ai suoi occhi, salvo poi risorgere per la rappresentazione di Nabucco, in una scena meta teatrale all’interno della Scala, che rimanda però la memoria alla donizettiana Le convenienze ed inconvenienze teatrali, laddove Nabucco è Radetzky; il dubbio che Zaccaria sia Carlo Cattaneo o piuttosto che Pompeo Litta non sfiora nessuno e così pure Abigaille non si capisce bene che funzione abbia in questo bailame. Ma, appunto, non è il caso di dar peso a ciò che si fa e si canta. Funziona? E tanto basti. Lode allo scenografo Alessandro Camera, ed all’abile “lighting designer” Paolo Mazzon.

Viceversa non ci sono stati dubbi, alla recita del 20 opportunamente scelta per il cast che ha toccato l’eccellenza, sul versante musicale. Iniziando dalla direzione incalzante ed a tratti anche giustamente ed opportunamente “quarantottesca” dell’ottimo Maestro valenciano Jordi Bernacer, già apprezzato in Arena in Aida. A capo dell’orchestra areniana non trascura il versante squisitamente nostalgico e dolente, che pure scaturisce più volte dalla gloriosa partitura e trova l’ispirazione sia nel celeberrimo coro, cantato stupendamente dagli artisti che lo compongono, diretti da Vito Lombardi, ma anche la tinta verdiana nel “Vieni o levita” e soprattutto in “Dio di Giuda”, momenti resi magici per la presnza di un cast praticamente perfetto.

Luciano Ganci, Ismaele, è da considerarsi un vero lusso: squillo e voce ben proiettata in una parte breve ed ingrata, ma proprio perciò intensa quando affidata ad un tenore di gran levatura. Così pure è piaciuto molto il basso Rafal Siwek, Zaccaria ieratico e dalla voce estesa, che ha subito l’incidente di vedersi il suo cantabile interrotto per la pioggia. Una piogerellina uggiosa che per ben due volte ha costretto a sospendere la recita, finita così alle due del mattino, ma che non ha fiaccato né gli artisti né la maggior parte del pubblico, che ha pazientemente resistito fino alla fine e così ha potuto godere di un protagonista di livello assoluto, il baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat. Ne abbiamo già parlato in occasione del suo debutto di ruolo al Teatro Coccia di Novara pochi mesi fa, procurando anche ascolti radiofonici. All’aperto, in Arena, la sua voce si espande con immutata morbidezza e con ricchezza di armonici, ma ciò che stupisce, ancora e sempre, è la proprietà del fraseggio e l’incisività dell’accento, in un italiano perfetto. Musicalmente inappuntabile, sia nell’uso esemplare del legato che nel dominare le dinamiche ad ogni livello, cantando con inconsueta nobiltà un ruolo che, specie in recite all’aperto, potrebbe portare all’eccesso. Bravo, bravissimo. E Brava bravissima anche l’Abigaille di Rebeka Lokar, pure ascoltata a Novara nella stessa parte. La sicurezza nell’acuto, che si spinge fino al Mi bemollle nella chiusa del duetto con Nabucco al terzo atto, fa corona ad una cantabilità ampia, sostenuta idealmente dal fiato dall’uso di mezze voci e di una tavolozza ricca di colori. L’aria che inizia il secondo atto, “Anch’io dischiuso un giorno”, ha suscitato un giusto e meritato lunghissimo applauso. Molto brava pure Géraldine Chauvet, Fenena dal piglio sopranile che ha dato opportuno risalto alla sua aria nel quarto atto.

Adeguati e bene in parte tutti gli altri: l’Anna di Elisabetta Rizzo, l’Abdallo di Roberto Covatta ed il Gran Sacerdote di Belo affidato al baritono triestino Nicolò Ceriani.

Andrea Merli

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