Trapani – Luglio Musicale Trapanese – 68esima stagione
LA VOIX HUMAINE – Francis Poulenc
L’HEURE ESPAGNOLE – Maurice Ravel
La travagliata stagione trapanese, orfana tutt’ora di una sede degna di tal nome per la rappresentazione dei propri spettacoli – laddove si escluda in stagione invernale il bellissimo parco di Villa Margherita – ed in attesa che sia pronto il nuovo Teatro del Conservatorio, quasi finito ma non risolto per problemi legati all’acustica, per la messa in scena del dittico Poulenc – Ravel costituito da La voix humaine e da L’heure espagnole, ha dovuto ripiegare all’interno della chiesa di San Nicola, al momento “sconsacrata” ed in fase di restauro pur essa. “Piuttost che nient, si dice in milanese, l’è mej piuttost” e dunque si faccia buon viso a cattivo gioco.
Uno scherzetto da nulla, mi diranno i fautori dello spettacolo ed in particolare il regista Renato Bonajuto, il talentuoso e giovanissimo scenografo Demian Palvetti e Tatiana Lerario che ha firmato i costumi.
Poco il tempo per le prove, sede indefinita fino all’ultimo, scene non complete alla “generale” con lavoro protrattosi fino a poche ore dalla “prima“, per completare alcuni dettagli scenici e per il disegno delle luci, da fare di notte poiché in chiesa di giorno impossibile l’oscuramento.
Poi, per uno di quei “miracoli” che sembrano essere la specialità italiana, a cui contribuiscono in verità una serie di attrezzisti, fonici, tecnici e via dicendo non (troppo) sindacalizzati e disposti per amore ed attaccamento al proprio lavoro a non guardare le lancette dell’orologio – il ché, trattandosi dell’operina di Ravel, sembra un paradosso – tutto è andato nel migliore dei modi.
Con dei semplici pannelli e senza soffitto da cui poter far calare quinte, si è creato un ambiente idoneo tanto per il monologo di Cocteau messo in musica da Poulenc, quanto per la più movimentata “pochade” di Franc Nohain musicata da Ravel. Ambientazione contemporanea che per la Voix è praticamente obbligata, ma riferita ai passati anni Sessanta dello scorso secolo. E dunque “Elle” attaccata ad un telefono bianco a cornetta, prima in soprabito, più avanti in vestaglia, con un bicchiere di wisky in mano, fumando nervosamente delle sigarette che altrettanto nervosamente spegne. Più vera della stessa verità, parafrasando Michonnet, grazie all’interpretazione non meno straordinaria di Paoletta Marrocu. La quale ha pure il pregio di avere un’ottima dizione francese, lingua che parla correntemente. Soprattutto è dotata di un temperamento incredibile, ferino e dolente nello stesso tempo, dando un rilievo inconsueto alla donna “anonima” che grida la sua disperazione al telefono mentendo in primis a sé stessa, con una disperazione nevrotica sì, ma non debole e forse nemmeno poi tanto depressa. Ti verrebbe da pensare che, sebbene abbia tentato il suicidio, si riprenda e, a dopo la conclusione del monologo, ponga lei la parola “fine” alla storia con l’omicidio dell’amante. Strada, per altro, registicamente già percorsa.
Bonajuto la stimola e l’incalza con una regia estremamente “naturalistica” dove tutto scorre con semplicità in una lettura intuitiva, senza contorsioni né fisiche né, tanto meno, psicologiche. La donna oltre ad essere ancora nel pieno della sua prorompente femminilità (la Marrocu generosamente offre la visione di un bel paio di gambe e del generoso decolté, aggiungendo fascino al personaggio che non deve essere necessariamente quello della sciattona arruffata che si rotola sul letto) ha poi la piena e completa vocalità che le corrisponde. In ciò la Marrocu è davvero ammirevole, per precisione musicale e incisività sia in acuto che nella zona centrale e grave.
Stupisce poi il passaggio rapido in Ravel nel ruolo della bella Concepcion, la moglie vogliosa dell’orologiaio toledano. Qui, sempre con un canto spigliato ma controllato, assume i toni da cabaret che il testo, in particolare, suggerisce. Quando nell’assolo “Ah quelle pitoyable aventure” si lamenta del suo stato, di donna sfortunata pur vivendo a due passi dell’Estremadura e nella terra di Dona Sol, la disperazione è ben altra rispetto a quella della donna di Cocteau. Tant’è che ai due inutili amanti, uno perso nel suo narcisistico poetare, l’altro incastrato dentro la pendola, preferisce alla fine il robusto mulattiere Ramiro che da lì in avanti passerà ogni mattina per fornirle… l’ora esatta, col consenso del marito Torquemada, cornuto sì, ma forse complice con la moglie che gli procura, comunque, affari d’oro.
Nella seconda operina, i pannelli sono ricoperti di tappezzerie optical anni Sessanta – alla cui ricerca ed acquisto ho impiccionescamente contribuito – che nascondono e simulano abilmente due porticine dietro ogni pendola. Vi compare appesa un’infinità di orologi di foggia strana e nel centro, al posto dell’enorme buco della chiave che durante La voix lasciava intendere l’indiscreto scrutare nell’animo della donna, un orologione dalle forme vagamente falliche.
Anche in questo caso il lavoro di Bonajuto è parso centrato e bene ha risolto tutti i caratteri degli interpreti ed i vari qui pro quo che ne derivano.
Dal punto di vista musicale, il compito è pesato quasi tutto sulle spalle del direttore Andrea Certa, poiché Poulenc è stato eseguito col solo pianoforte e l’ausilio dello xilofono, cui spetta il compito di imitare il trillo del telefono, mentre la rigogliosa orchestrazione di Ravel è stata ridotta alle sole percussioni e alla banda fornita dall’Ensamble del Luglio Musicale, posta di lato al palcoscenico improvvisato. Una menzione la merita pure la bravissima Manuela Ranno, cui è spettato il compito del Maestro suggeritore quasi a vista e di fondamentale importanza nell‘articolata opera di Ravel.
Comunque, anche se in formato ridotto, l’atmosfera, il ritmo e la tensione sono state rispettate e mantenute in virtù, pure, della bella prova del resto del cast nell’Heure espagnole. Iniziando da Francesco Vultaggio, baritono e mulattiere forzuto sì, ma dalla voce ben impostata e mai forzata, dotato di una buona verve e scioltezza nel rendere l’impacciato sempliciotto, quasi fosse Nemorino, che alla fine la vince su tutti. Una bella sorpresa l’ha procurata il tenore giapponese Tatsuya Takahashi, dalla vocalità importante, bel colore che sarà interessante ascoltare in altri ruoli, lui nella parte dello smidollato poeta Gonzalve. Il ruolo del pretenzioso banchiere Don Inigo Gomez è toccato al basso baritono Victor Garcia Sierra, un professionista di tutto rispetto che ha reso con buon senso del teatro la parte del libidinoso banchiere. Infine nel meteorico, ma non trascurabile ruolo di Torquemada, l’orologiaio, se l’è cavata onorevolmente il tenore turco Murat Can Guven, già messaggero nell’Aida a Novara.
Successo con numerose chiamate per questo spettacolo che nasce in “formato esportazione”. Speriamo possa girare e quindi rivederlo su altre scene italiane e non.
Andrea Merli