BARCELLONA: La forza del destino – Giuseppe Verdi, 12 novembre 2024

BARCELLONA: La forza del destino – Giuseppe Verdi, 12 novembre 2024

La forza del destino

Giuseppe Verdi

Direttore Nicola Luisotti

Regia Jean-Claude Auvray

  • Il Marchese di Calatrava Giacomo Prestia
  • Donna Leonora Anna Pirozzi, Saioa Hernandez
  • Don Carlo Di Vargas Artur Ruciński, Amartuvshin Enkhbat
  • Don Álvaro Brian Jagde, Francesco Pio Galasso
  • Preziosilla Caterina Piva, Szilvia Vörös
  • Padre Guardiano Giovanni Relyea, Alejandro López
  • Fra Melitone Pietro Spagnoli, Luis Cansino
  • Curra Laura Villa
  • Trabucco Moisés Marín
  • Sindaco Dimitar Darlev, Plamen Papazikov
  • Chirurgo Domingo Ramos, Luca Groppo

Coreografia Terry John Bates
Scenografie Alain Chambon
Progettazione dei costumi Maria Chiara Donato
Luci Laurent Castaing

Produzione Gran Teatre del Liceu e Opéra national de Paris
Chrous del Gran Teatre del Liceu (direttore Pablo Assante)
Orchestra Sinfonica del Gran Teatre del Liceu
Assistente direttore musicale Luis Miguel Mendez

Gran Teatre del Liceu, 12 novembre 2024


Si ripropone al Liceu una produzione de La Forza del Destino nata in collaborazioe con l’Opéra National di Parigi e già salita in scena ed agli onori della cronaca nel 2012. In breve, uno spettacolo “minimale”, che fa rimpiangere ai più la forma di concerto, concepito da Jean-Claude Auvray, che ne firma la regia, con le (poche) scene di Alain Chambron, il quale si limita quasi esclusivamente all’attrezzo: dei tavoli, alcune sedie tra cui un “trono”, in stile seicentesco, onnipresente dalla prima scena, nel prologo in casa Calatrava, all’osteria di Hornachuelos, poi nello spazio aperto del convento, nell’accampamento di Velletri de infine, di nuovo, di ritorno ad Hornachuelos. Con buona pace della Gondrand o altra ditta di traslochi, tanto deve essere preziosa: non chiedete una interpretazione storico-psicologica, perché ciò va oltre l’umana comprensione. Come del resto poco a che fare il nostro Risorgimento nazionale, quando l’opera venne composta da un ex senatore del regno, ovvero il rinunciatario Giuseppe Verdi nel 1861, men che meno con sbandieramento di bandiera italo-sabauda e, ancor più inverosimile, di quella spagnola con stemma borbone, casato che qualora fosse intervenuto nelle nostre guerre di indipendenza si sarebbe probabilmente schierato coi parenti napoletani del Regno delle Due Sicilie. Non parliamo poi del “graffity” Viva la Guerra, cancellato con un superposto Viva Verdi dalla ronda di soldati “pacifisti” che precede il duetto della diffida tra Alvaro e Don Carlo. Amenità a parte, quanti in sala (in Spagna come in Francia) conosceranno il significato dell’acronimo Viva V.E.R.D.I. ? Domanda retorica.

Detto ciò, e percorsa la storia con una regia superconvenzionale, per fortuna la parte musicale ha largamente compensato quella visiva. Innanzitutto per la direzione esaltante di Nicola Luisotti, il quale oltre a sedurre con una lettura esemplare il numeroso pubblico accorso che ha tributato ovazioni a non finire sin dalla prima comparsa sul podio, si è fatto subito benvolere dall’orchestra e dal coro (qui con numerosi rinforzi giunti anche dall’Italia) diretto con cura e con massimi risultati dal pur bravissimo Maestro Pablo Assante, apprezzabilissimo anche nel preparare i solisti nei numerosi incisi dell’atto di Velletri e poi nella “scena della minestra” nell’ultimo atto.

Luisotti non solo si conferma tra i massimi conoscitori ed esecutori del nostro repertorio, ma coglie di questa partitura la vera essenza che sta proprio nelle diverse atmosfere, passando dai toni della tragica concitazione a quelli burleschi, popolari e volutamente sopra le righe – penso all’entrata di Preziosilla dove Verdi, autoimprestandosi l’Oscar de Un ballo in maschera, svolge in realtà una sarcastica, ironica critica a quel mondo militare che in cuor suo disprezzava – arrivando, poi, a momenti di sublime raccoglimento tanto in una ispiratissima “La Vergine degli Angeli” intonata con un suono etereo e quasi evanescente, e soprattutto nello sconvolgente finale “manzoniano”, quello che Verdi riscrisse per la Scala nel 1864 “tradendo” l’originale romantico, eccessivo di Saavedra, dove le frasi del terzetto intonate dal Padre Guardiano, da Alvaro e dalla morente Leonora, hanno commosso tutta la sala che ha ascoltato in religioso silenzio fino all’ultimo delicatissimo accordo. Sono in molti a Barcellona che si augurano Luisotti come prossimo direttore stabile e ciò va oltre qualsiasi pur sperticato complimento.

Il doppio cast, qui ci si riferisce al primo che ha cantato alla recita del 12 novembre, ha allineato artisti di sicura resa e specificità di ruolo. Iniziando dalle due protagoniste, Anna Pirozzi, (a cui è stato attribuito il titolo di miglior cantante della stagione 2023/24 al Liceu per la sua interpretazione di Amelia in Un ballo in maschera) ideale Leonora cantata con dovizia di mezzi e con attenzione particolare alle mezze voci, alle messe in voce de ai pianissimi presi in attacchi di estrema precisione musicale, salvo poi emergere in un settore acuto sempre svettante, facile e felice. Una Leonora anche interpretativamente coinvolgente, sia nel grande duetto col basso, soprattutto nell’ultimo atto con toccante e palpabile emozione. Saioa Hernández, ascoltata però in “prova generale” per ovvi motivi di date – purtroppo non si possiede il dono dell’ubiquità – possiede uno strumento altrettanto privilegiato, un timbro più incisivo e tagliente, ma altrettanta cura di accento e fraseggio, fors’anche più incisivo. Una Leonora più disperata, determinata e tagliente, ma sempre apprezzabilissima. Il Don Alvaro di Brian Jadge sfoggia un materiale di primissima qualità: voce imperiosa, timbro splendente, facilità in acuto. Interpretativamente emerge un personaggio battagliero e fiero, più portato al canto coturnato che alle frasi di introversione che pure Alvaro deve pronunciare con suono contenuto, senza spingere verso il forte, a costo di parere anche monotono e uniforme. Ciò non toglie che l’americano si sia garantito un’accoglienza a dir poco trionfale. Successo arriso anche al pugliese Francesco Pio Galasso, voce più lirica che drammatica e dunque prevedibilmente cauto, almeno in prova generale, ma con linea musicale corretta e uso di colori più sfumato, accento e fraseggio da approfondire, ma si trattava pur sempre di una prova. Chi non ha bisogno di lodi ulteriori è il baritono Amartuvshin Enkhbat, Don Carlo di Vargas: che aggiungere alla perfezione? Una voce così, al suo debutto al Gran Teatre del Liceu, non se la ricordavano da tempo: è venuto giù il teatro ottenendo un’autentica apoteosi, ripetuta a quanto si dice ad ogni replica. Nel primo cast il pur bravissimo Artur Rucinski ha dileneato un personaggio nobile, contenuto pur negli eccessi dell’ira in una linea di canto esemplare, curatissima. Non può vantare la voce del mongolo, ma rimane un mistero che un cantante così bravo non canti, giusto per fare un esempio, alla Scala… dove pure alla Pirozzi, per altro, la via sembra preclusa, ma sarebbe un discorso assai lungo.

Caterina Piva ha tratteggiato una brillante Preziosilla, sopranile e molto scanzonata. Pure assai abile scenicamente, ma meno felice vocalmente, quella di Szilvia Vörös. Bene, ma senza particolari meriti, i due Padri Guardiani: John Relyea, dal timbro bituminoso, Alejandro López, in difficoltà con l’acuto. Ottimi i due Melitone: Pietro Spagnoli, un esempio di bravura vocale e scenica, l’intrigante, sonoro e comico Luis Cansino, nel secondo cast. Il tenore Moisés Marín e il mezzosoprano Laura Vila hanno partecipato a tutte le recite: lui un bravissimo Trabuco e poi Rinvendaiolo nella scena dell’accampamento, lei precisa nel prologo, a cui è seguita la sinfonia anche per permettere il cambio scena senza intervalli.

Una nota a parte la merita il basso Giacomo Prestia, previsto in cartello come Padre Guardiano, ma che per una situazione personale di salute ha deciso di vestire i panni del Marchese di Calatrava nel prologo: voce sempre autorevole, ma piegata ad un canto domestico nelle prime frasi rivolte alla figlia, poi incisivo, ma sempre contenuto in uno sdegnoso e trattenuta ira nelle frasi rivolte a Don  Alvaro e alla figlia “infame” e maledetta in punto di morte. Una lezione di scuola interpretativa e di come la voce va piegata alle esigenze sceniche. Bravissimo.

Andrea Merli

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