MADRID: Adriana Lecouvreur – Francesco Cilea, 7 e 8 ottobre 2024
ADRIANA LECOUVREUR
Francesco Cilea
Direttore Nicola Luisotti
Regia David McVicar
Personaggi e Interpreti:
- Adriana Lecouvreur Ermonela Jaho / Maria Agresta
- Maurizio Brian Jagde / Matthew Polenzani
- Príncipe de Bouillon Maurizio Muraro
- Príncesa de Bouillon Elīna Garanča / Ksenia Dudnikova / Teresa Romano
- Michonnet Nicola Alaimo / Manel Esteve
- Quinault David Lagares
- Poisson Vicenç Esteve
- Mademoiselle Jouvenot Sylvia Schwartz / Monica Bacelli
- Abate de Chazeuil Mikeldi Atxalandabaso
- Abate de Chazeuil Josep Fadó
Scene Charles Edwards
Costumi Brigitte Reiffenstuel
Luci ADAM SILVERMAN
Coreografía Andrew George
Direzione del coro José Luis Basso
Teatro Real, 7 / 8 ottobre 2024
L’opera di Cilea inaugura la stagione al Teatro Real, debuttandovi tardivamente. È pur vero che queste recite sono state dedicate a José Carreras, che ha brillato per la sua assenza mentre la sera della “prima” ospite del Teatro era il collega Placido Domingo. Il tenore catalano nel 1974 a Madrid vestì i panni di Maurizio di Sassonia a fianco di Montserrat Caballé, ma quell’anno il Teatro Real era ancora inattivo, chiuso per i lunghi restauri che si protrassero per decine d’anni; Adriana Lecouvreur si eseguì al Teatro de La Zarzuela, dove ai tempi si presentava la stagione d’opera.
La produzione, ormai arcinota e plurirecensita, proviene dalla Royal Opera House di Londra, nata in cooproduzione con la Wiener Staatsoper, l’Opèra National de Paris, la San Francisco Opera ed il Gran Teatre del Liceu, dove è stata recentemente ripresa. È passata pure al Teatro alla Scala di Milano; si tratta del plusquamperfetto allestimento firmato da David McVicar, qui ripreso da Justin Way. Parafrasando l’Abate di Chazeuil: “Basta dire: Adriana!”.
Felicissima la parte musicale: il Maestro Nicola Luisotti, pur spingendo l’ottima orchestra in qualche dinamica eccessiva, ha scandagliato lo spartito in ogni sua piega e sottigliezza, dimostrando una sapiente padronanza, mettendo in evidenza tutte le preziosità armoniche e sottolineando con giusta enfasi l’uso peculiare che Cilea fa dei motivi conduttori, per esempio nel suggestivo intermezzo, misterioso e romantico diretto con levità e rara bellezza sonora. Benissimo pure il coro, anche se qui chiamato ad un impegno relativamente breve, splendidamente istruito dal Maestro José Luis Basso.
Per un totale di 13 recite a teatro esaurito si sono avvicendati due cast e, addirittura, tre Principesse di Bouillon. La sera del 7 ottobre, per una sola recita, a impersonare la vendicatrice nobil donna è stata Teresa Romano. Mi compiaccio d’iniziare da lei la cronaca: ha colpito particolarmente la sua accattivante e magnetica interpretazione. Questo valente soprano, passato da poco e con grande successo ai ruoli da “mezzo” – in realtà è un autentico “soprano Falcon” per la facilità e squillo del settore acuto – trovando un’identità e personalità individuabilissime, imperiose. Un ruolo, quello della Bouillon, che si “brucia” in due atti, soprattutto nel secondo, dove l’accento, il fraseggio, oltre che la linea vocale portata ad estremi sbalzi di umore e tessitura, devono essere incisivi, frementi, a tratti sferzanti e addirittura feroci, nel contempo appassionati, ricchi di seduzione. Non c’è stata parola, sillaba, intenzione che non siano state messe in evidenza, dimostrando così la complessa psicologia del personaggio, sanguigno e calcolatore. A ciò si aggiunga una presenza imponente da un punto di vista attoriale. Dopo la Eboli e la Fedora, apprezzatissime in terre emiliane, un altro notevole acquisto, molto gradito dal pubblico che gremiva la sala.
Successo pieno che è arriso a tutti i validi colleghi: i quattro membri della Comédie Française: la pungente Jouvenot del soprano Sylvia Schwartz, la scatenata Dangeville della “nostra” Monica Bacelli (sempre una garanzia di professionalità), l’altissimo Quinault del basso David Lagares, cui spetta la celeberrima frase “Moliere vi ascolta là” e il bravissimo tenore Vicenç Esteve, sonoro Poisson. Suo fratello, entrambi figli d’arte del baritono Vicenç Esteve tante volte apprezzato al Liceu, Manel Esteve Madrid, baritono che si sta imponendo non solo nel panorama spagnolo, ha interpretato un eccellente Michonnet, con grande umanità, ricerca di colori e cura nel fraseggio, dimostrando una linea di canto nobile e sostenuta da una generosa proiezione. Perfettamente centrati nei ruoli di fianco, così importanti sia drammaticamente che da un punto di vista squisitamente musicale: l’Abate di Chazeuil, interpretato dal tenore di Mataró Josep Fadó, con grande pertinenza vocale e gusto, opportunamente manierato, ma senza eccessi nella parte del “ninnolo della moglie”, il Principe di Bouillon di notevole peso vocale, con la sua rotonda e pastosa voce di autorevole basso, del comasco Maurizio Muraro.
Era qualche tempo che non ascoltavo il tenore americano Matthew Polenzani. La sua è stata una gradedole conferma, non solo per l’elegante e nobile linea di canto: Maurizio sebbene sotto le false spoglie del “semplice alfiere” è pur sempre il Conte di Sassonia, bensì per la dizione perfetta, i colori e la varietà nel fraseggio; per un uso accurato, suadente e pertinente di mezzevoci e pianissimi di suggestivo effetto: suoni perfettamente proiettati, sostenuti da un’emissione fluida. L’attacco dopo “la chimera della gloria, promessa al vincitor” sulla frase “Bella tu sei, tu sei gioconda” e, infine, la prodezza dello smorzando sul Si acuto in “Morta! Morta!” nel finale, rimarranno impressi nella memoria: vi ha trovato il colore della lacrima, quel quid indefinibile che rendeva uniche le voci, ad esempio quella di Beniamino Gigli.
Maria Agresta ritorna ad entrare nella pelle della storica tragedienne. Se alla Scala la si era già apprezzata, qui ha superato sè stessa. “Ho cercato di dipingere” sono sue parole “tutti i colori di quest’anima che si nutre di amore, verità di arte.” e s’intuisce dalla sua partecipazione emotiva che questo personaggio le sta particolarmente a cuore, che ama incondizionatamente “questo immenso capolavoro”. La parte, di per sè, non pone all’interprete particolari scogli vocali, essendo piuttosto centralizzante la tessitura su cui si muove la linea di canto, che però deve essere controllatissima, mai cedere all’effetto “verista”, poichè l’opera e Cilea ne rappresentano l’esatto opposto, anche quando scende al “parlato” in una recitazione sempre al servizio della musica, intonata nel melologo celeberrimo del monologo di Fedra, la scena del richiamo, del terzo atto. Ma sta nella dolcezza dell’emissione di una voce con corpo squisitamente lirico e sonorità piene in centro e pure in zona grave, che punta l’intelligente e sensibile Artista. L’attenzione alla parola cantata, seguendo la scuola delle “fini dicitrici”, iniziando dalla sua Maestra e mentore, Raina Kabaivanska a sua volta dichiaratasi ispirata dal “modello Olivero”, è esemplare. L’accento ha quella naturalezza e spontaneità insiti e connaturali nel personaggio di Adriana, a suo tempo una “rivoluzionaria” nella recitazione, che rendono tutta la credibilità della donna che, specie nel finale, deve uscire dalla situazione meta teatrale che ha cadenzato in particolare il primo e secondo atto. Dopo un’esemplare esecuzione de “Io son l’umile ancella”, la passione dei duetti con Maurizio, la sfida con la Bouillon con quel “L’avrei giurato”, finalmente ripristinato con un misto di ironia e soddisfazione, un finale da brivido già nel toccante “Poveri fiori” e poi, via via, fino al sognante “Ecco la luce che mi seduce…”. Trionfo e commozione, un tutt’uno.
La sera dopo trionfo annunciato per tutti, dove a onor del vero si è apprezzato solo lo straordinario Michonnet di Nicola Alaimo, il quale qui raggiunge livelli interpretativi difficilmente eguagliabili in una parte che lo vede coinvolto anche emotivamente e che pare gli sia stata cucita addosso dallo stesso Compositore. Applaudistissima Elina Garança. Pur senza muoverle appunti, la ho trovato fuori parte; festeggiatissimo il tenore Brian Jadge, bella voce, gran bel materiale anche fisicamente prestante; fin troppo testosteronico: Maurizio non è Turiddu, ammesso e non concesso che Turiddu debba cantare tutto forte.
Infine, accoglienza al calor bianco per il soprano albanese Ermonella Jaho. Parafrasando la Principessa di Bouillon: “Ecco, l’adoran tutti” … o quasi. In Spagna, al Liceu come qui al Real, ha un pubblico affezionatissimo, che la segue e sostiene; le va riconosciuta un’abilità notevole nell’essersi costruita una personalità che seduce ed ammalia a dispetto di un timbro arido, afonide, di un settore acuto periclitante, prossimo al grido, di una zona grave vuota in cui il compromesso con il parlato, con suoni aperti e gutturali, rappresenta lo stratagemma per superare scogli altrimenti insormontabili. Ho il massimo rispetto per quegli artisti che si garantiscono popolarità e prestigio con mezzi oggettivamente scarsi. Ci vuole grande intelligenza e, soprattutto, un pizzico di fortuna in un ambiente pronto a cogliere la minima defaillance, ma che in alcuni giustifica e tollera tutto in nome di un’interpretazione coinvolgente e calamitosa. Ecco, diciamo che personalmente non soffro questa attrazione fatale: il limite è mio.
Andrea Merli