BARCELLONA: Adriana Lecouvreur – Francesco Cilèa, 16-17 goigno 2024

BARCELLONA: Adriana Lecouvreur – Francesco Cilèa, 16-17 goigno 2024

ADRIANA LECOUVREUR

Francesco Cilèa

Opera in quattro atti

Libretto di Arturo Colautti basato sul dramma “Adrienne Lecouvreur” di Eugène Scribe e Ernest Legouvé
Prima esecuzione assoluta: 11.06.1902 al Teatro Lirico di Milano
Prima a Barcellona: 7/5/1903 al Gran Teatre del Liceu
Ultima rappresentazione al Liceu: 3/6/2012
Spettacoli totali al Liceu: 41


Direttore Patrick Summers

Regia David McVicar
Ripresa Justin Vay 

Personaggi e Interpreti:

  • Maurizio Freddie De Tommaso, Roberto Alagna
  • Principe di Buillon Filippo Bou
  • Abate di Chazeuil Didier Pieri
  • Michonnet Ambrogio Maestri, Luis Cansino
  • Quinault Carlos Daza
  • Poisson Marco Sala
  • Maggiordomo Carlos Cremades, Pau Bordas
  • Adriana Lecouvreur Aleksandra Kurzak, Valeria Sepe (22, 26 e 29 giugno)
  • Principessa di Buillon Daniela Barcellona, Clementine Margaine
  • Madamoiselle Juvenot Irene Palazon
  • Madamoiselle Dangeville Anaïs Masllorens

Scene Charles Edwards
Coreografia Andrea Giorgio
Costumi Brigitte Reiffenstuel
Luci Adam Silvermann

CORO DEL GRAN TEATRE DEL LICEU
ORCHESTRA SINFONICA DEL GRAN TEATRE DEL LICEU

PRODUZIONE
Gran Teatre del Liceu, Royal Opera House (Londres), Opéra de Paris, Wiener Staatsoper e San Francisco Opera

 

Teatre Liceu, 16 / 17 giugno 2024


 La stagione operistica al Gran Teatre del Liceu si chiude con 7 recite di Adriana Lecouvreur. L’opera di Cilèa viene riproposta nell’allestimento che al Liceu fu proposto la prima volta nel 2012, nato in coproduzione con il Covent Garden di Londra, l’Opera di Parigi, la Staatsoper di Vienna, l’Opera di San Francisco, per la regia David McVicar, ora ripresa da Justin Vay, scene di Charles Edwards, costumi di Brigitte Reiffenstuel, luci di Adam Silverman e coreografia di Andrew George e che si vide pure al Teatro alla Scala due anni fa. Spettacolo praticamente perfetto, fedele alla drammaturgia, rispettoso dell’epoca e intelligentemente meta-teatrale – si ricorderà il teatro settecentesco opportunamente girevole in cui si svolge tutta l’azione – quindi assolutamente ed intrinsicamente aderente allo spirito dell’indiscutibile capolavoro. Il successo di pubblico in questi casi è sempre garantito, e dunque siamo in controtendenza (finalmente!) rispetto al Regie-Theater dove le contestazioni vengono esibite come gloriose ferite in campo di battaglia.

Successo trionfale anche per la parte musicale, nonostante l’incertezza che ha accompagnato questa ripresa, quando ben due della protagoniste in cartello hanno, come si suol dire in gergo teatrale, cancellato la loro partecipazione: Sonya Yoncheva ed Eleonora Buratto. La direzione del teatro ha fatto fronte all’impiccio promuovendo il soprano napoletano Valeria Sepe, previsto come copertura e per il periodo della prove, alle ultime tre recite, rispetto all’unica che le era stata riservata, e scritturando per le prime quattro recite il soprano polacco Aleksandra Kurzak, la quale si è trovata così a dover cantare per ben due volte per due giorni di fila, il 16 e 17 e poi il 19 e 20 giugno, con un solo giorno di pausa. A tale prodezza si sommi il fatto che per la Kurzak si trattava di un debutto e che la parte l’ha messa in gola, espressione sempre… “melodrammatica”, in soli 15 giorni. Un ruolo che, per difficoltà interpretative più che squisitamente vocali (e comunque si tratta pur sempre del ruolo protagonista) andrebbe metabolizzato con maggior calma. Perciò, visti i risultati, non si esagera a gridare al miracolo: prevedibilmente cauta la sera della “prima”, il 16 giugno, specie nell’attesissima e celeberrima sortita “Io son l’umile ancella”, dove comunque ha dimostrato subito un gusto sopraffino nel dosare la voce in suggestive messe in voce e pianissimi di perfetta emissione, a partire del secondo atto ha preso letteralmente il volo già nel duetto con Maurizio “Ah è dunque vero”, poi ha tirato fuori le unghie nel duetto con la Bouillon, risultando credibile nel celebre monologo di Racine al terzo atto ed, infine, struggente nel quarto, siglando un prezioso “Poveri fiori” e risultando trascinante, commovente nella scena della morte. La sera del 16 giugno era affiancata dal tenore italo-inglese Freddie Di Tommaso, il quale nel corso della stagione al Liceu, sia caso o fortuna, ha cantato una recita di Carmen sostituendo a tanbur battente un collega e poi è stato protagonista de Un ballo in maschera, in coppia con un’esplosiva Pirozzi laddove han fatto letteralmente scintille nel secondo atto. Ora è chiaro che ci troviamo di fronte ad una delle voci tenorili più dotate degli ultimi anni: timbro, colore, squillo, armonici, tutto gioca a suo favore. Cavallo di pura razza, giovane ed aitante, in Verdi si è fatto prendere più volte dall’entusiasmo, meno male aggiungo io. Ora questa baldanza che alcuni hanno censurato in Riccardo (che a me è parso comunque sensazionale) si sposa vieppiù nel personaggio di Maurizio di Sassonia, amante impetuoso, sassone tutto d’un pezzo, ardente innamorato. Ma sarebbe ingiusto non riconoscergli intenzioni, colori e sfumature che s’impongono nell’arioso “L’anima ho stanca” e poi nel duettone finale dove compie la prodezza di smorzare e filare un Si acuto. Chapeau!

Che dire del secondo, solo cronologicamente ed in ordine di recita, Maurizio incarnato da Roberto Alagna? Innanzitutto che la “chimica” con la moglie, Aleksandra Kurzak, assume il valore di un elemento fondamentale in più. I duetti tra Maurizio ed Adriana diventano lava incandescente di verità scenica ed emozionale. Poi, tenendo conto della ormai lunga carriera in cui Roberto non si è certo risparmiato, degli impegni continui che affronta (dopo un concerto in Giappone a breve la replica alla Scala) la forma fisica e vocale del sessantenne tenore italo-francese è semplicemente straordinaria per proiezione di suono, ricchezza e preziosità del timbro, sempre inconfondibile ed individualissimo, la perfezione della parola cantata, centellinata con accento e fraseggio da grande e di grande scuola. Il teatro è letteralmente “venuto giù” per gli applausi.

Nelle parti di Michonnet e della Principessa di Bouillon si sono alternati Ambrogio Maestri e Luis Cansino, Daniela Barcellona e Clémentine Margaine, benissimo tutti e quattro. Ambrogio Maestri ha dalla sua un’esperienza ed una conoscenza del ruolo sin nelle pieghe più recondite; ne scaturisce un personaggio umano, anche ironico e disincantato; Luis Cansino possiede una voce corposa, piena e molto adatta a questi ruoli “paterni”, anche lui fraseggia con cura e accenta con precisione, risultando forse più aderente registicamente al personaggio, reso con un’invidiabile risoluzione attoriale. Della Barcellona, che aggiunge questo personaggio alla sua ricca galleria di ritratti, si apprezza l’interpretazione scandita con una voce sempre portata giustamente avanti e soprattutto curando ogni sfumatura, sprezzante, caustica, sottilmente perfida, del controverso personaggio. La Margaine, forte di una voce dovizziosa se ne approfitta letteralmente, sparando bordate di suono di grande bellezza. Interessante ed appaluditissima, ma più Eboli che Bouillon per i miei gusti. Ottime le parti di fianco, iniziando dall’Abate del tenore livornese Didier Pieri, il quale giustamente si sta specializzando in personaggi che richiedono approfondimento interpretativo; corretto il dolente Principe di Bouillon intonato dal basso Felipe Bou. Ben centrati i quattro Societaires: il baritono Carlos Daza, Quinault, il tenore Marc Sala, Poisson e le due Madammigelle, la Jouvenot, Irene Palazón e Dangeville, Anaïs Masllorens. Ottima la partecipazione del coro, ridotto nei ranghi, diretto dal M° David-Huy Nguyen-Phung. Un capitolo a parte l’orchestra, che specie alla “prima” ha suonato sotto all’abituale livello e si sono sentiti diversi attacchi sporchi, pure degli archi. Un po’ meglio alla recita del 17 giugno. Non di meno la direzione di Patrick Summers non ha convinto: dinamiche esagerate, portate a coprire spesso le voci, accelerazioni e poi rallentamenti che hanno messo in difficoltà più di una volta gli interpreti. C’è il rischio di sottovalutare le difficoltà di quest’opera, laddove sarebbe opportuno farla dirige da Maestri che dominino il peculiare stile, solo sulla carta “verista”, di questo gioiello della “giovane scuola”.

Andrea Merli

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