MARTINA FRANCA: Il paese dei campanelli – Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato, 26 luglio 2023
Martina Franca – 49º Festival della Valle d’Itria
IL PAESE DEI CAMPANELLI
Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato
Personaggi e Interpreti:
- Bombon Maritina Tampakopoulos
- Nela Francesca Sassu
- Ethel Silvia Regazzo
- Hans Norman Reinhardt
- La Gaffe Matteo Macchioni
- Pomerania Federico Vazzola
- Attanasio Prot Stefano Bresciani
- Tarquinio Brut Fabio Rossini
- Basilio Blum Pasquale Buonarota
- Tom Graziano de Pace
Scene e costumi Anna Bonomelli
Light Designer Pietro Sperduti
Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari
Coro del Teatro Petruzzelli di Bari
Maestro del coro Fabrizio Cassi
In coproduzione con la Fondazione Teatro Carlo Coccia di Novara
Palazzo Ducale, 26 luglio 2023
Nel prossimo mese di novembre la popolarissima operetta Il Paese dei Campanelli compirà il primo secolo di vita ed al Festival della Valle d’Itria, giunto alla sua 49esima edizione, si è pensato bene di allestirne un nuovo allestimento, in collaborazione col Teatro Coccia di Novara dove verrà ripreso nel prossimo autunno, affidando la direzione musicale nientemeno che a Fabio Luisi, direttore musicale del Festival e Mº di lunga carriera in campo sinfonico e operistico, e la regia ad Alessandro Talevi, che proprio a Martina Franca si presentò esattamente dieci anni fa, nel 2013, con l’opera buffa, prodromo dell’operetta italiana, Crispino e la Comare dei fratelli Luigi e Federico Ricci, della cui programmazione nella gestione di allora, affidata a Alberto Triola sotto lo sguardo vigile del Presidente del Festival, il compianto Franco Punzi scomparso lo scorso mese di febbraio, in buona parte ne fui ispiratore.
Lo spettacolo si presenta fastoso. La scena è unica, a sinistra dello spettatore il salone di un bar tra le palme, a destra le paratie di una nave, nel centro una pedana di cabaret che serve per lo svolgersi di gran parte dell’azione: la firma Anna Bonomelli come pure i costumi, sebbene provengano dal set del film “L’Aviatore” con Leonardo Di Caprio. Le coreografie sono opera di Annamaria Bruzzese, la quale pure disponendo di un esiguo numero di danzatori, quattro più quattro come ai tempi di Nora Orlandi, riesce a far ballare il coro piuttosto bene, un po’ meno i solisti. Voci di corridoio mormorano una cifra che si aggira sui 250.000 euro, 80 mila solo per l’affitto dei costumi. Non c’è che dire, anzi come diremmo in Spagna “se ha tirado la casa por la ventana”, non si è badato a spese.
Va subito detto che I Campanelli, anche per chi come la maggior parte del pubblico a Martina Franca non l’abbia mai ascoltata prima, si rivela un’operetta inossidabile, proprio per la sempreverde freschezza dei ritmi, questi imposti da quel “diavolo” d’un Lombardo, a ragione considerato il “padre” dell’operetta italiana dal pur breve ed effimero volo, e l’eleganza delle ispiratissime musiche di Ranzato, violinista di spicco come lo fu Lehar di cui, nelle volute dei valzer e slanci lirici, ricorda e ripete lo stile ed il gusto. Non a caso e a differenza di altri titoli della stessa felicissima coppia, non è mai uscita di repertorio, sebbene nel momento in cui l’operetta è uscita in silenzio dal panorama nazionale, dai due festival estivi a lei dedicata a Trieste e Palermo, circoli affidata alla buona volontà e ai miseri mezzi delle cosiddette compagnie di giro. Le quali, però, l’hanno mantenuta in vita e nella memoria popolare con motivi indimenticabili: il Fox dei campanelli e quello della luna, il duetto giapponese, la Java, e così via. Il rischio, anzi la trappola in cui purtroppo si è caduti seppure guidati dalle buone intenzioni qui a Martina Franca, è quello di pensare di “nobilitare” un genere che nasce popolare, schietto e diretto, come del resto testimonia la registrazione in 15 dischi a 78 giri del 1929 eseguita dalla Compagnia Lombardo al comando di Domenico, fratello di Carlo e direttore della Primaria Compagnia Lombardo, una delle tante della Lombardo & C. che ai tempi spopolavano nel Bel Paese.
Qui, avendo a disposizione un’orchestra nutritissima, Luisi si è fatto prendere la mano dal “mahlerismo” e “debussyanismo”, ottenendo anche atmosfere suggestive, per esempio nei languidi ed estenuati duetti tra Nela ed Hans, perdendo di vista quel sapore genuino, che occhieggia all’avanspettacolo (con tutto il rispetto per un genere del resto qui anticipato anche da una trama ricca di ammiccamenti e doppi sensi) e trovando solo a momenti slanci di libertà jazzistica, per esempio nella ripresa danzata del Fox della luna. Bravissimo, per carità, ma I Campanelli sono un’altra cosa.
Lo stesso discorso vale per la regia di Talevi, il quale tralascia ogni riferimento onirico e favolistico della “leggenda”: il paesello olandese dominato da “svelti campanili in pietra bianca” che dovrebbero ricordare i ricami di Burano, le cuffiette inamidate, gli zoccoletti, addirittura i campanelli, che pure forniscono il titolo all’operetta, sostituiti dagli abat-jour disposti sui tavolini del bar. Parrà pure una discutibile parafernalia ma costituisce il tessuto connettivo kitsch dell’operetta. Si ignora gran parte del testo originale per imbastire una drammaturgia “coloniale” (niente marinai, ma colonnelli dell’armata britannica, forse in omaggio alla sua natale Johannesburg) che si rivela inadeguata, prolissa e ripetitiva, per nulla comica. Quello che gli difetta, e non può essere altrimenti, oltre ad un cast di “specialisti” (ricordiamo che nell’operette di Lombardo i protagonisti sono sempre la Soubrette ed il Brillante, caratteri praticamente estinti in Italia) è la conoscenza e la frequentazione di questo specifico teatro leggero, che ha le sue regole, i suoi tempi, le sue intonazioni nella recitazione. Nell’operetta la complicità con il pubblico è fondamentale, le risate ne sono il condimento al pari degli applausi che, ai tempi relativamente recenti in cui furoreggiavano Aurora Banfi e Sandro Massimini, interrompevano le battute comiche e sottolineavano i trionfali ingressi degli artisti in scena. L’operetta, risaputamente, è un genere fragile e a mandarlo in frantumi ci vuol poco e si fa presto.
Il cast ha avuto l’handycap di non poter contare con una coppia di navigati comici, motore di tutta la vicenda. Il pur mercuriale La Gaffe del tenore Matteo Macchioni, che ce l’ha messa tutta, non possiede i ritmi e la verve richiesti ed indispensabili al personaggio. Men che meno la modesta Bombon del soprano greco Maritina Tampokopoulos, sfarfalleggiante e disinvolta nonostante né la figura né il costume (nero, seppure luccicante) l’abbiano aiutata, ma inadeguata per una recitazione in cui non si è cercato, almeno, di sfruttarne il lato esotico, non dicasi erotico. La coppia dei lirici è stata difesa con ampia sufficienza dal soprano Francesca Sassu, l’unica che mi sentirei di promuovere, magari guidata meglio registicamente, dalla ricca vocalità sopranile, dalla linea di canto effusiva e convincente, seppure a tratti coperta dall’orchestra. Il tenore americano Norman Reinhardt possiede certo le phisique du rol del bel tenentino Hans, ma barcolla nella recitazione e vocalmente copia i difetti di Kaufmann, risultando spesso ingolato. Gli concediamo l’attenuante di aver sostituito il previsto Paolo Fanale, previsto in cartello, ma indisposto, e ci si chiede se sul territorio nazionale non ci fosse un tenore italiano libero per questa parte. Sul resto del cast, in buona parte affidato ad attori, non si è andati oltre alla grigia mediocrità. Bene invece il coro, come l’orchestra, fornito dal Teatro Petruzzelli di Bari e ben istruito dal Mº Fabrizio Cassi: alcune voci, chiamate a recitare la parte delle mogli inglesi dei marinai britannici, sono risultate più efficaci attorialmente di quelle dei solisti. E con ciò si dice tutto.
Serata per fortuna non torrida nel cortile del Palazzo Ducale, pubblico numeroso e alla fine festante, seppure non ci sia stata la passerella, quasi d’obbligo in questo genere, e la ripetizione dei brani per sottolineare gli applausi al singolo personaggio. Ma già, qui le cose si sono fatte… seriamente!
Andrea Merli