BARCELLONA: Manon – Jules Massenet, 29 e 30 aprile 2023
MANON
opera lirica in cinque atti e sei quadri
di Jules Massenet
su libretto di Henri Meilhac e Philippe Gille
soggetto tratto dal romanzo Histoire du chevalier des Grieux et de Manon Lescaut dell’abate Antoine François Prévost
Direttore Marc Minkowski
Regia Olivier Py
Personaggi e interpreti:
- Manon Lescaut Nadine Sierra, Amina Edris
- Pousette Inés Ballesteros
- Javotte Anna Tobella
- Rosette Anaïs Masllorens
- Il Cavaliere Des Grieux Michael Fabiano, Pene Pati
- Lescaut Alexandre Duhamel, Jarrett Ott
- Il Conte Des Grieux Laurent Naouri, Jean-Vincent Blot
- Guillot de Morfontaine Albert Casals
- Senor De Brètigny Tomeu Bibiloni
- Il locandiere Pau Armengol
Coreografía Daniel Izzo
Scene Pierre André Weitz
Costumi Pierre André Weitz
Luci Bertrand Killy
Grand Théâtre de Genève y Opéra-Comique (París)
Coro del Gran Teatre del Liceu
Direttore del CoroPablo Assante
Orquesta Sinfónica del Gran Teatre del Liceu
Gran Teatre del Liceu 29 / 30 aprile 2023
Dopo aver assistito a ben quattro recite, compresa la “prova generale” il 17 aprile aperta al pubblico e, dunque, a tutti gli effetti una recita in più… fuori cachet, ed aver metabolizzato, mi si passi il termine, i due cast proposti, mi accingo alla cronaca, partendo dall’aspetto meno gratificante – ovviamente per me – di questa Manon di Jules Massenet e cioè proprio lo spettacolo. Si tratta di una produzione che arriva al Gran Teatre del Liceu dopo essere passata dal Grand Théâtre de Genève e dall’Opéra-Comique di Parigi per la regia di Oliver Py, il quale ha affidato la ripresa al suo assistente Albert Estany, con le scene (in realtà una scena fissa a pannelli mobili) ed i costumi, questi non particolarmente fantasiosi – la protagonista passa i due primi atti in sottoveste – ma coloratissimi, di Pierre André Weitz, le luci – più spesso al neon – di Bertrand Killy e le coreografie di Daniel Izzo. I ballerini, non nominati in programma, si sono dimostrati molto bravi e pure disposti a denudarsi ripetutamente (integralmente una ragazza che nel terzo atto pare la controfigura di Manon) salvo la sera della diretta TV il 30 aprile: poiché il contratto non prevedeva un surplus di paga per la ripresa, hanno indetto una sorta di “sciopero di pudicizia” che ha sorpreso coloro, per esempio il sottoscritto, che lo spettacolo lo avevano già visto nella sua “integrità”. E come dar loro torto? Visto anche che alla volgarità dell’impostazione registica, che ambienta la storia di Manon in una sorta di attuale quartiere a luci rosse tra alberghi a ore, non ci guadagna con una tetta o un culo in più. Questa impostazione che vorrebbe omologare il capolavoro di Massenet ad un Musical, oltre a tradire completamente il senso della storia – mi limito a due esempi: la protagonista già “imputtanita” mentre canta “Je suis encor tout étourdie” ed il cugino Lescaut, una via di mezzo tra il mezzano e il biscazziere, in borghese e come del resto le due “guardie”, esordendo con una pisciata a tre contro il muro – e lo spirito del libretto di Meilhac e Gille (l’Abate Prevost lasciamolo in pace), tende a banalizzare il tutto, senza creare un’atmosfera minimamente romantica, distraendo dall’ascolto dei protagonisti, zeppando di controscene specie il primo atto. Potremmo definirlo “neo-zefirellismo”, facendo un torto a colui che pure caricando comunque seguiva un preciso discorso narrativo, superficiale e gratuito, che ormai sembra essere la regola in troppe regie eufemisticamente “moderne”. Va detto che gran parte del pubblico pare aver gradito. Come dire che il fine giustifica i mezzi.
La parte musicale è andata decisamente meglio ed ha messo d’accordo praticamente tutti. Per il primo cast, assieme alla straordinaria Nadine Sierra, era stato annunciato Javier Camarena, il quale avrebbe dovuto debuttare la parte del Chevalier Des Grieux. Con largo anticipo, va detto, il tenore messicano annunciò pubblicamente, dal suo profilo sulle reti sociali, che dopo aver visionato lo spartito non si sentiva pronto per un ruolo che per la sua voce è ancora pesante. Sicché la direzione artistica ha immediatamente “bloccato” Michael Fabiano, per altro già impegnato al Liceu con le recite della precedente Tosca. In alternanza nelle rispettive parti di Manon e Des Grieux, il soprano egiziano Amina Edris ed il tenore di Samoa, Pene Pati, coppia in scena e nella vita. Nella parte di Lescaut si sono alternati i baritoni Alexandre Duhamel e Jarret Ott, in quella del Conte Des Grieux i bassi Laurent Naouri e Jean-Vicent Blot. Invariati i restanti: le tre damigelle (ovviamente ridotte al ruolo di volgari “battone”) il soprano Inés Ballesteros, Poussette, il mezzosoprano Anna Tobella, Javotte, il contralto Anaïs Masilorens, Rosette, puntuali e vocalmente accettabili nel loro perenne cinguettare, sorta di novello Trio Lescano, il tonante Brétigny del baritono Tolomeu Babiloni, il divertente e caricato Guillot de Morfontaine, tratteggiato bene e con voce penetrante dal tenore Albert Casals e l’Hotelier gagliardo di Pau Armengol. Nella marginale, ma esposta parte delle due guardie (onnipresenti compagni di bisboccia di Lescaut) si sono alternati Gabriel Diap con Dimitar Darlev e Pau Bordas con Plamen Papazikov, mentre ad elementi del coro – sempre ottimo quello del Liceu istruito dal Maestro Pablo Assante -sono state affidati gli interventi del primo atto, all’arrivo della carrozza di Arras (qui sostituita da un piccolo e fumante trenino in miniatura) e nel terzo, durante la sena del Cours-la-Reine.
L’orchestra, ridotta di ranghi ma col golfo mistico alzato quasi a livello della platea, in gran spolvero ha ubbidito alla bacchetta e gesto di Marc Minkowski, notoriamente specialista di musica barocca, il quale ha proceduto con una lettura piuttosto atassica, prediligendo la convulsione ed il frastuono nelle scene d’assieme e concertati, coprendo spesso le voci per esempio nel quartetto del secondo atto e nella scena dell’hotel de Transilvanie, riuscendo tuttavia a creare momenti di intensa raffinatezza e grande trasporto nelle scene clou del duetto tra i due protagonisti a conclusione del primo atto, poi nelle due attesissime arie de la “petite table” intonata da Manon e quindi nel “Sogno” di Des Grieux, per continuare con un intenso “Ah! Fouyez, douce image” e con un trascinante duetto “N’est-ce plus ma main”. Tutta la scena finale ha poi toccato il vertice dell’emozione e ciò, va sottolineato, anche grazie alla bravura degli interpreti.
In ordine cronologico: il secondo cast ascoltato il 29 aprile. Amina Edris si è rivelata un’ottima protagonista, dalla voce ben proiettata, capace di dominare tutte le dinamiche. Un soprano lirico dal bel timbro, acuto emesso con sicurezza, anche se l’acuto risulta un po’ metallico, ma di buona tenuta e come interprete molto convincente, anche per l’innegabile “chimica” tra lei ed il marito, Pene Pati. Lui il trionfatore della serata ed a ragione: personalmente non ho memoria di un Des Grieux cantato con tanta aderenza stilistica, bellezza timbrica, ed una tavolozza così ricca di colori, con un trasporto interpretativo eccezionale che lo rende, lui di forme morbide e rotonde, affascinante e “bello” per l’espressività e l’immedesimazione nella parte; si aggiunga la dizione perfetta. Raramente mi capita, ultimamente, di commuovermi a teatro. Con lui ho faticato a contenere la lacrimuccia già nel primo duetto; il suo “Sogno” è stato veramente tale, cantato sul fiato con eteree, ma vibranti mezze voci e pianissimi; la scena a San Sulpizio ha scatenato il teatro in un prolungato ed interminabile applauso; poi di potente veemenza le frasi del quarto atto: “Manon! Sphinx étonnant” ed infine commovente, con la brava moglie, in tutto la scena finale. Sinceramente un artista così capita ascoltarlo di rado e spero che possa crescere e, soprattutto, mantenersi a questo straordinario livello. Molto bravo il Lescaut del baritono Ott; vociferante e piuttosto grossier invece quello di Duhamel, pure molto apprezzato dal pubblico. Stesso discorso per il Conte Des Grieux: la risicata sufficienza per il basso Blot, mentre il veterano Naouri offre tutt’ora una lezione di classe e buon canto.
La sera dopo, presenti le video camere in sala e trasmessa la recita in Streaming, il tenore Fabiano ha offerto un ritratto sanguigno e meno raffinato, diciamolo pure “Verista”, di Des Grieux. Il timbro non è particolarmente bello a differenza di quello di Pati, il quale ricorda per solarità il giovane Pavarotti, ma l’interprete è sicuro, coinvolgente e, senza tentare un raffronto con il samoano, gli riesce pure di smorzare il suono, eseguire pianissimi e dare un senso alla parola cantata. Il suo successo è stato meritatissimo.
Superiore ad ogni lode la stupefacente Manon di Nadine Sierra: in lei si sposano tutte le Grazie. La bellezza fisica, sorte di avvenente Josephine Baker del terzo millennio, si unisce ad una vocalità preziosa, ad una voce grata per timbro, estesa e duttile. Le riesce dare un senso “cantato”, per esempio, alla risata della sua prima aria; ma poi, oltre a sembrare “più sincera della stessa verità”, parafrasando il Colautti dell’Adriana Lecouvreur, nell’addio alla piccola tavola (qui sciaguratamente sostituita da una sfera a specchietti da discoteca che la protagonista palleggia durante l’aria) è stata superlativa per scioltezza scenica (risultando anche brava danzatrice) e vocale, con una coloratura sensazionale e – ciò che conta – motivata da una recitazione coinvolgente, nella gavotta del terzo atto, raggiungendo e tenendo disinvoltamente Re sovracuto. Non a caso, chi vedrà il video, capirà perché la scena è stata interrotta ben due volte dall’applauso del pubblico che alla fine è letteralmente esploso. Aggiungo un’ultima nota: la Sierra ha pure il dono di “credere” nella regia e di parteciparvi con estrema convinzione riuscendo a renderla, quando in scena c’è lei almeno, convincente.
Brava, bravissima e tanto basti.
Andrea Merli