TEATRO ALLA SCALA: Fedora – Umberto Giordano, 15 ottobre 2022
FEDORA
Umberto Giordano
Nuova produzione Teatro alla Scala
Direttore Marco Armiliato
Regia Mario Martone
Personaggi e Interpreti:
- Fedora Sonya Yoncheva
- La Contessa Olga Sukarev Serena Gamberoni
- Loris Ipanov Roberto Alagna
- De Siriex George Petean
- Dimitri Caterina Piva
- Un piccolo Savoiardo Cecilia Menegatti
- Desiré Gregory Bonfatti
- Rouvel Carlo Bosi
- Cirillo Andrea Pellegrini
- Boroff Gianfranco Montresor
- Gretch Romano Dal Zovo
- Lorek Costantino Finucci
- Nicola Devis Longo
- Sergio Michele Mauro
- Michele Ramtin Ghazavi
Scene Margherita Palli
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Coreografia Daniela Schiavone
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Teatro alla Scala, 15 ottobre 2022
Fedora torna al Teatro alla Scala dopo le recite del 2004 e torna Roberto Alagna, dopo l’incidente dell’Aida la sera dell’11 dicembre 2006. Ed è subito successo. Trionfo senza se e senza ma per il tenore italo-francese, che i melomani, non solo milanesi, attendevano con impazienza dopo sedici lunghi anni di astinenza e per la parte musicale dello spettacolo; qualche isolato “buu” lanciato alla protagonista, il soprano bulgaro Sonya Yoncheva, più insistenti e numerosi quelli riservati ai responsabili della parte scenica: Mario Martone, regista, Margherita Palli che firma la scenografia, Ursula Patzak responsabile dei costumi, Pasquale Mari (luci) e Daniela Schiavone, coreografa.
Il dramma di Victorien Sardou, che cedette finalmente alle pressioni di Giordano dopo il successo ottenuto da questi con il precedente Andrea Chénier, fu scritto per Sarah Bernhardt, fu cavallo di battaglia di Eleonora Duse e non si presta ad aggiornamenti. Sembra incredibile che vi sia ancora parte della critica che, entrati nel terzo millennio, consideri Fedora una “storiaccia impastoiata da lacci veristi” e avanzi dei dubbi pure sulla musica di Umberto Giordano considerata “polverosa veterolirica”. Sta di fatto che la storia è trascinante e la musica incanta il pubblico il quale di certi giudizi, o meglio pregiudizi, se ne infischia olimpicamente.
Un allestimento “tradizionale” e cioè che riproponga l’ambiente “liberty” e decadente descritto da Arturo Colautti, dalmata autore del libretto, ad alcuni parrebbe forse una figurina della Liebig? Poco male, sarebbe d’epoca pure quella poiché i tempi sono pure quelli dell’invenzione del celebre concentrato e dei dadi per il brodo. L’opera respira, si nutre ed emana il profumo floreale dell’Art Nouveau. In essa vi si incrociano principesse e contesse, spie e polizia segreta, un pianista polacco biondo come una mimosa, slitte e cocchieri, champagne e samovar, e i terribili “nichilisti” – dal momento che i bolscevichi non esistevano ancora – autori dell’attentato allo zar, questo in realtà reale poiché fu così assassinato Alessandro II il 13 marzo 1881. Inutile armamentario, “quanti fior! Quanti ninnoli deliziosi!” ci canta la Romazov, parafernalia da cui prescindere? Anche no.
Si apre il sipario su un’enorme TV al plasma in cui viene trasmessa una partita di calcio e siamo già nel climax del regie theater. Poi Martone suggerisce (a chi li sa riconoscere, magari dopo aver letto il programma di sala) i dipinti di Magritte: “Gli amanti”, L’impero delle luci” e “L’assassino minacciato”, questo ricostruito con dettaglio nella scena finale. Il regista pecca di horror vacui, condendo i momenti in cui i solisti dovrebbero essere soli in scena con inutili ed irritanti controscene. Così mentre Loris canta “Amor ti vieta” compare Borov in impermeabile e si accende una sigaretta (un tabagista non può mancare in un allestimento con pretesa di modernità) e durante il duetto della confessione di Loris si materializzano Wanda, la sirena bionda, Vladimiro insanguinato e la vecchia madre, dedita al giardinaggio. Troppo, signori, troppo. Per non parlare di altri dettagli che son parsi incoerenti o comunque ripetitivi e di una recitazione che non si scosta dalla solita e prevedibile routine del “modernariato” teatrale: il cameriere che si lancia nella break dance mentre la figurazione accenna il twist durante la “Donna russa”.
Fortunatamente la parte visuale è stata compensata da un’eccellente lettura musicale. Sempre splendida, avvolgente e calibrata la prestazione dell’orchestra della Scala, diretta con competenza, direi amore e ampio senso della frase musicale da Marco Armiliato al suo debutto nella sala del Piermarini. Il suo gesto chiaro e preciso ha sostenuto il canto di tutti gli artisti. Iniziando dalla Yoncheva, dotata sì di temperamento, ma ciò non è sufficiente per interpretare questo ruolo paradigmatico di grande matrice drammatica. La tessitura acuta non la mette in difficoltà, ma in zona centrale e bassa, che risulta artificiosa e su cui si gioca gran parte della scrittura di Fedora, la voce spesso si “intuba” in suoni gutturali. Inoltre risulta carente nell’articolazione della parola, e qui il canto di conversazione è preponderante. Ma essendo al debutto le si concede un margine di miglioramento nel corso delle recite. Resta un fatto che, forse, era meglio scegliere un’interprete più “fina dicitrice” che solo abile vocalista.
Nei due ruoli “di fianco”, in mezzo ad una moltitudine di piccole parti, tutte esposte, si sono messi in luce la brillante Olga del soprano Serena Gamberoni, che ha cantato con perfetta musicalità e ottima linea sia le brevi frasi di “Vi presento Lazinsky” e poi l’arietta dello “champagne della vedova”, dimostrandosi pure abile ciclista nell’ultimo atto, seppure sia stata tagliata l’arietta della “bici”; bene pure il baritono rumeno George Petean, De Siriex divertente ne “La donna russa”. Della lunga schiera di comprimari si nominano con piacere mezzosoprano Caterina Piva che ha dato voce al piccolo Dimitri nel primo atto e la voce bianca di Caterina Menegatti, il pastorello che canta “la montanina”.
E poi c’è il Loris di Roberto Alagna, il quale da solo vale tutta l’ ”operazione Fedora”. Il 59enne tenore si presenta in smagliante forma vocale e fisica, spettacolare. Non è solo il celebre arioso “Amor ti vieta”, l’aria più famosa di tutta l’opera, che ha prodotto un primo – il primo della serata – fragoroso applauso a scena aperta, sono le ardenti frasi nei duetti con Fedora, il primo con il solo accompagnamento di pianoforte (in buca l’ottimo Paolo Berrino, in scena una comparsa) e gli altri due alla fine del secondo atto e nel drammatico finale dell’opera a sedurre il pubblico. Questo artista è uno dei pochi che oggi arriva ad emozionare, toccando davvero la fibra della commozione: il suo pianto, certo intonato con voce impostata ma di effetto naturalissimo, risulta contagioso; la sua immedesimazione nella parte di Loris è totale, coinvolgente e seducente. Mancava da sedici anni alla Scala. Era ora che si ricongiungesse col pubblico che lo ha sempre amato: “bentornato Roberto, ti vogliamo bene!”.
Andrea Merli