MODENA: Adriana Lecouvreur – Francesco Cilea, 11 marzo 2022
Adriana Lecouvreur
opera lirica di Francesco Cilea
su libretto di Arturo Colautti
tratto dal dramma Adrienne Lecouvreur di Eugène Scribe e Ernest Legouvé
prima rappresentazione il 6 novembre 1902 al Teatro Lirico di Milano
Direttore Aldo Sisillo
Regia Italo Nunziata
Personaggi e Iterpreti:
- Adriana Lecouvreur Maria Teresa Leva
- Maurizio Luciano Ganci
- Michonnet Claudio Sgura
- La principessa di Bouillon Teresa Romano
- L’abate di Chazeuil Saverio Pugliese
- Il principe di Bouillon Adriano Gramigni
- M.lle Dangeville Shay Bloch
- M.lle Jouvenot Maria Bagalà
- Poisson Stefano Consolini
- Quinault Steponas Zonys
- Un maggiordomo Manfredo Meneghetti
Scene Emanuele Sinisi
Costumi Artemio Cabassi
Luci Fiammetta Baldiserri
Regista assistente e coreografo Danilo Rubeca
Orchestra dell’Emilia Romagna Arturo Toscanini
Coro Lirico di Modena
Maestro del coro Stefano Colò
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza e Fondazione Teatro Regio di Parma
NUOVO ALLESTIMENTO
Teatro Comunale Freni Pavarotti, 11 marzo 2022
Sembra che Adriana Lecouvreur si stia di nuovo imponendo nei teatri italiani. Alla edizione di Bologna, nata in piena pandemia covid, ha fatto seguito la Scala ed ora questa nuova ed ambiziosa produzione per il circuito emiliano, nata a Modena e prossimamente a Piacenza.
Ambiziosa, sì, non essendo opera di facile gestione scenica e che richiede almeno un quartetto di fuori classe. Scommessa vinta in partenza affidando le parti a cantanti italiani e dunque favoriti nella esposizione della parola cantata, fondamentale in un’opera che seppur Verista nel senso pieno del termine non è, abbisogna di un canto di conversazione perfetto e ben concertato.
Lode dunque al Maestro Aldo Sisillo, non solo responsabile della direzione d’orchestra, quella assai lodevole dell’Emilia Romagna “Arturo Toscanini”, e del coro Lirico di Modena, istruito assai bene dal pur bravo Stefano Colò, pure dell’ottima concertazione e dello splendido risultato raggiunto già a i nastri di partenza. Una lettura vivace, ben scandita nel ritmo e con un ideale sostegno del palcoscenico.
Qui si sono distinti nei ruoli di fianco, che pure hanno un’importanza musicale e drammaturgica fondamentale, gli ottimi Poisson del tenore Stefano Consolini, Quinault del basso Steponas Zony e le puntuali e ben definite, sia come carattere che per voce, Dangeville del mezzosoprano Shay Bloch e Jouvenot del soprano Maria Bagalà. Benissimo il Principe di Bouillon del basso Adriano Gramigni, con un tocco distaccato e disincantato affatto nuovo e davvero notevole per aderenza musicale e spirito l’Abate del tenore Saverio Pugliese, in una nuova luce inquietante, quasi mefistofelica. Il Maggiordomo che annuncia l’arrivo della Lecouvreur nel terzo atto proviene dalla file del coro ed è stato il puntuale tenore Manfredo Meneghetti.
Splendido e di immediata presa sul pubblico il quartetto dei protagonisti. Claudio Sgura, Michonnet, presta la sua vocalità possente ed un gusto teatrale di grande rilievo. Umano, come compete al personaggio, ma anche più presente del solito in una versione scenica che lo prevede attivo e meno rinunciatario: complimenti. La Principessa di Bouillon di Teresa Romano ci ha fatto rivivere la travolgente vocalità di una scuola antica che ci riporta alla Barbieri, alla Cossotto ed alla Berini, solo per citare alcune tra le più apprezzate Bouillon del passato: voce ampia, sonora in basso dove si diffonde con un colore quasi contraltile e facile in acuto. Si sommi un temperamento travolgente e si abbia il ritratto di quella “più scaltra” che si vorrebbe fosse un’altra, ma che alla fine è proprio lei in tutta la sua passionale crudeltà. Luciano Ganci tra i tenori italiani oggi in circolazione è quello che può vantarsi di avere il timbro più solare, “all’italiana” e ricco di armonici, oltre che di squillo. Il suo Maurizio di Sassonia ha un che di latino, passionale e anche godereccio, che ne fa un personaggio “nuovo” anche nella tremenda “tirata” del “Russo Mencikof”, esposta con una baldanza goliardica divertita e divertente. Sul fronte dell’amoroso, però, sfoggia la suadenza del canto tanto nella “Dolcissima effige” quanto nel raccoglimento de “L’anima ho stanca” e poi nel trascinante finale. Inutile dire che ha avuto un’accoglienza trionfale.
Maria Teresa Leva, Adriana, debutta con forza e passione un ruolo che, si intuisce, la coinvolge personalmente. Sfoggia un timbro molto suadente, con uso mirato di mezze voci e canto sul labbro e fiato, sfogando poi benissimo in acuti lanciati senza difficoltà e con perfetta tenuta. Convince, già al debutto, in un ruolo che sicuramente le offre un margine di ulteriore approfondimento in corso di recite, ma dove la aderenza con la parola cantata, con la frase musicale è già notevolissima. Tutto il quarto atto la vede emergere nel suo grande potenziale vocale ed interpretativo. Giustamente applauditissima dopo i numeri canonici de “L’umile ancella” e dei “Poveri fiori”, salutata da un’ovazione alla ribalta finale.
Lo spettacolo gioca sul minimalismo scenico con grande oculatezza: un impianto scenico di facile “esportazione”, tenendo conto che dovrà adattarsi a diversi teatri, creato da Emanuele Sinisi. La trasposizione anni Sessanta dello scorso secolo permette ad Artemio Cabassi, costumista e sarto di Haute Couture, di sfoggiare una passerella di vestiti da sera che, da soli, fanno la scena: bellissimi è dir poco, preziosi di sicuro. Perfetta la illuminazione di Fiammetta Baldiserri. Italo Nunziata, regista, conduce con polso sicuro una lettura per molti versi “diversa” ma senza tradire una scuola teatrale di lunga traiettoria e, tanto meno, la drammaturgia originale. Mi ha particolarmente colpito l’idea finale, quando alla morte dell’eroina entrano in scena i Societeres e con lo sguardo, assieme a Michonnet, condannano Maurizio, obbligandolo ad uscire di scena. Messaggio forte che possiede una valenza drammatica indiscutibile.
Andrea Merli