FIRENZE: SIBERIA – Umberto Giordano, 7 luglio 2021
LXXXIII Maggio Musicale Fiorentino
SIBERIA
opera lirica in tre atti di Umberto Giordano
su libretto di Luigi Illica
Direttore Gianandrea Noseda
Regia Roberto Andò
Personaggi e Interpreti:
- Stephana Sonya Yoncheva
- Vassili Giorgi Sturua
- Gleby George Petean
- Nikona Caterina Piva
- Il principe Alexis Giorgio Misseri
- La fanciulla Caterina Meldolesi
- Ivan Antonio Garès
- Il banchiere Mischinsky Francesco Verna
- Walinof Emanuele Cordaro
- Il capitano Francesco Samuele Venuti
- Il sergente Joseph Dahdah
- Il cosacco Alfonso Zambuto
- Il governatore Adolfo Corrado
- L’invalido Davide Piva
- L’ispettore Amin Ahangaran
Solista del Coro Alfio Vacanti
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Nanà Cecchi
Video Luca Scarzella
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Teatro Comunale, 7 luglio 2021
Andata in scena al Teatro alla Scala il 19 dicembre del 1903 davanti a “tutta l’aristocrazia del sangue e del censo” compreso il Vate Gabriele D’Annunzio, Siberia, dramma in tre atti su libretto di Luigi Illica, non ottenne uno straordinario successo “strappato dal valore della musica a un pubblico nervoso, impaziente” secondo la recensione di Amintore Galli sul “Secolo”. L’opera uscì quasi subito dal repertorio. Si dovrà attendere il 1927 per una ripresa alla Scala nella versione “defintiva” rimodellata dall’Autore. Poi in Italia silenzio fino al 1974 (RAI) e 2003 (Martina Franca) e nel 2015 al Conservatorio di Milano, in forma di concerto. Eppure Umberto Giordano ribadì più volte che questa “in salsa russa” era la sua opera prediletta. L’ambientazione russa, seppure del solo primo atto, la ritroviamo pure in Fedora (del 1898) e risponde ad un interesse, oltre che per i tribolati eventi politici di un Paese per i tempi esotico, soprattutto per il diffondersi della letteratura russa, tradotta in italiano dal francese, resa popolare dalle pubblicazioni della Treves, di Tolstoj e Dostoievskij. Di quest’ultimo confluiscono nel libretto apprestato da Illica le “Memorie di una casa di morti”, scritte durante i lavori forzati in Siberia, ma anche i profili di donne perdute e diseredate che troviamo in “Delitto e castigo”, in “Resurrezione”, nei “Fratelli Karamazov”, in “Anna Karenina”. Una trama che si conclude, fatalmente, con la morte e redenzione dell’eroina Stephana, la quale riconquista col sacrificio la libertà negatale dal mondo e dagli uomini che la circondano, Gléby, lo sfruttatore e Vassili, l’amante geloso.
Nel libretto, pur nella relativa brevità dei tre atti per una durata di poco più di un’ora e mezza, ritroviamo motivi ricorrenti in Giordano: la “mamma”, sempre invocata ed invariabilmente “morta”, con una descrizione dell’ambiente salottiero a San Pietroburgo, quindi desolato in Siberia. Non manca l’equivalente della vecchia Madelon. Qui è una giovane fanciulla alla ricerca, tra i deportati, dell’amato padre. Siberia uguale miseria, insiste l’Illica, i cui versi in assenza di Giacosa e, soprattutto, dell’esigente Sor Giacomo, scivola spesso nell’enfasi: sia esempio la “tirata” di Vassili, impeccabile tra i deportati, sulle qualità siberiane che Puccini, con il suo infallibile intuito, avrebbe epurato come fece con la scena del cortile in Boheme.
La musica è avvincente, vi si sprecano autentici temi russi, iniziando dalla celebre “Canzone dei battelieri del Volga”, motivo conduttore del canto dei deportati, costruita ed orchestrata con indiscutibile efficacia e sapienza, senza veri e propri i numeri chiusi, a differenza delle più note Andrea Chénier e Fedora, concepita in una vocalità che, partendo dal tono scanzonato del primo atto, sfocia in una cantabilità verista, nel declamato e in ampie frasi senza soluzione di continuità, con interventi del coro, assai impegnato nei distinti settori, decisivi a sottolineare l’azione in particolare nel terzo atto.
Il principale merito di questa sospirata ripresa di un progetto che era stato pensato per il Teatro Regio di Torino nel 2018, lo si deve al M° Gianandrea Noseda, il cui entusiasmo contagioso è stato percepibile grazie al lavoro non meno che straordinario svolto dall’eccellente Orchestra del Maggio Fiorentino. Una lettura trascinante, giustamente enfatica nei momenti in cui esplode turgida la musica di Giordano, ma anche poeticamente ispirata nei non pochi squarci lirici, negli squarci sinfonici che emergono dallo spartito e che lo rendono invero prezioso al punto di comprendere e rendere condivisibile la predilezione dell’Autore. Splendido anche il compito del coro, la cui partecipazione è parsa altrettanto straordinaria, curato da Lorenzo Fratini.
Ai tre personaggi principali è chiesto un impegno vocale arduo. Inziando dal personaggio di Gléby, un “cattivo” senza possibilità di redenzione, che insegue la sua preda, stupratata in tenera età e quindi lanciata alla prostituzione, “la bella orientale” Stephana. George Petean, baritono rumeno, ha reso perfettamente lo spirito sarcastico e crudele del personaggio. Antagonista il bel Vassili, affidato alla corda di tenore, costretto ad una tessitura che a definire ardua si pecca per difetto. Il giovane tenore georgiano Giorgi Sturua ne viene a capo con onore, la voce dal bel timbro giunta all’acuto tende a suonare indietro e ad opacizzarsi, ma il solo fatto di uscirne indenne merita tutto il rispetto. Si aggiunga una bella partecipazione attoriale aiutato da una presenza fisica più che adeguata.
Vera protagonista, in questa sorta di incrocio tra Violetta e Manon in “salsa russa”, Sonya Yoncheva, Stephana. La parte non le pone difficoltà vocale alcuna, sebbene l’orchestra impetuosamente tenda a coprire spesso le voci. Risulta completa anche nelle note gravi e le riesce assai bene rendere l’evoluzione del personaggio con una determinazione che sfocia in grande verità teatrale nell’ultimo atto. Molto curati i ruoli di fianco, che hanno una forte rilevanza drammaturgica e musicale: tra gli altri, il Principe Alexis del tenore Giorgio Misseri, che mantiene Stephana e viene mortalmente ferito da Vassili, motivo poi della condanna ai lavori forzati in Siberia, il mezzosoprano Caterina Piva, la governante Nikona madrina di Vassili che tenta invano di interporsi tra lui e Stephana e, nel cameo del secondo atto il promettente soprano Caterina Meldolesi, la fanciulla in cerca del padre.
Lo spettacolo firmato da Roberto Andò per la regia, con le scene e le luci di Gianni Carluccio ed i costumi assai ben realizzati da Nanà Cecchi nonché il lavoro video di Luca Scarzella, ha il grande pregio di essere didascalico e di permettere una facile lettura per un pubblico posto di fronte a quella che, a tutti gli effetti, è una novità assoluta. Spostamento d’epoca, dal libretto nella prima metà del XIXesimo secolo alla vigilia della Prima Guerra mondiale, con l’apparizione del ritratto di Stalin nel Gulag siberiano in concomitanza con la Pasqua russa. Tutta l’azione si immagina sul set della ripresa di un film, con cambi a vista di scene e costumi. La soluzione non è nuova, ma funziona benissimo. A maggior ragione non si capisce la necessità di un lungo intervallo tra i primi due atti ed il terzo, laddove tenendo conto della durata dell’opera sarebbe stato auspicabile senza soluzione di continuità. Ma, è da supporre conoscendo le “regole” dei teatri italiani, che siano subentrate questioni sindacali. Si tratta, comunque, di una riproposta di sicuro interesse e c’è da auspicarsi che non “muoia” qui e venga replicata in altri teatri, non solo italiani.
Successo caloroso, nonostante la contingentazione dei posti (il ché ormai ha dell’anacronistico visto quello che succede negli stadi, nei treni, ecc.) da parte di un pubblico che se non è accorso in massa, di certo è parso assai soddisfatto.
Andrea Merli