CAGLIARI: La vedova allegra – Franz Lehar, 16/17 giugno 2021
La vedova allegra
operetta in tre atti
libretto Viktor Léon e Leo Stein, dalla commedia L’Attaché d’ambassade di Henri Meilhac
musica Franz Lehár
maestro concertatore e direttore Giuseppe Finzi
regia Blas Roca Rey
personaggi e interpreti:
- l barone Mirko Zeta Bruno Praticò (16-18)/Gustavo Castillo (17-19)
- Valencienne Maria Laura Jacobellis (16-18)/Ilaria Vanacore (17-19)
- Il conte Danilo Danilowitsch Leonardo Caimi (16-18)/Christian Collia (17-19)
- Hanna Glawari Elisa Balbo (16-18)/Elena Rossi (17-19)
- Camille de Rossillon Levy Sekgapane (16-18)/Matteo Mezzaro (17-19)
- Il visconte Cascada Stefano Consolini
- Raoul de Saint Brioche Mauro Secci
- Bogdanowitch Francesco Musinu
- Sylviane Fulvia Mastrobuono
- Kromow Enrico Zara
- Olga Lara Rotili
- Pritschitch Andrea Schifaudo
- Praškowia Federica Giansanti
- Njegus Gennaro Cannavacciuolo
- Grisettes Barbara Crisponi, Beatrice Murtas, Graziella Ortu, Francesca Zanatta, Caterina D’Angelo, Luana Spinola Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari
maestro del coro Giovanni Andreoli
scene Antonella Conte
costumi Marco Nateri
luci Andrea Ledda
coreografia Luigia Frattaroli
nuovo allestimento del Teatro Lirico di Cagliari
Arena Parco della Musica, 16 / 17 giugno 2021
L’Operetta mette sempre allegria. Cosa di meglio per uscire dall’incubo Covid? A Cagliari la Fondazione Teatro Lirico, usufruendo dello spazio aperto del Parco della Musica a fianco del teatro con una capacità di circa 1800 posti che, seppure “contingentati” al 50 % nel rispetto dei decreti tutt’ora in vigore, garantiscono un’affluenza quasi normale, ha opportunamente allestito una nuova produzione de La vedova allegra, pur con tutti i limiti imposti dalla situazione. Iniziando dalla inevitabile amplificazione. Lode all’ottimo lavoro dei fonici: mai è parsa prima d’ora così “naturale” e rispettosa degli equilibri tra voce ed orchestra, e quella di Cagliari si pone in prima linea tra le orchestre italiane, con un’ottima “spalla” nel primo violino Fabrizio Falasca, anche se il coro era relegato in una gradinata fuori campo, a lato del palcoscenico, sempre per evitare il rischio del contagio. Ottimo ed ottimamente istruito da Giovanni Andreoli.
Per quattro recite, tra loro in rapida successione, si è pensato a due cast e, in entrambi, con la opinabile scelta di affidare il ruolo del Conte Danilo, combattuto tra amor di Patria e seduzione della Glawari del titolo, ad un tenore, anzi a due, quando la tessitura è baritonale. Niente di strano, nell’operetta tutto e concesso ed i Danilo tenori, soprattutto nella tradizione delle compagnie di giro che un tempo battevano il Bel Paese, non si contano. Certo si crea, da un punto di vista squisitamente musicale, un certo squilibrio o meglio omologazione tra Danilo Danilowitch e Camille de Rossillon, questo inevitabilmente tenore e, seppure come “oppure”, con ripetuta puntatura al Do acuto. Nel primo cast la scelta è stata assolutamente fortunata poiché il ruolo di Danilo era interpretato da Leonardo Caimi, tenore che negli anni ha sviluppato un canto da lirico spinto e, di fatto, subito dopo è corso a St. Margareten in Austria per sostenere il ruolo di Calaf in Turandot, mentre Camillo (all’italiana) aveva la pregevolissima voce del tenore di grazia sudafricano Levy Sekgapane. Il primo, anche in virtù di una presenza fisica gagliarda e dotato di un temperamento adattissimo al ruolo del Don Giovanni, pur al suo debutto, è parso un Danilo coi fiocchi e certo né la parte squisitamente vocale, con una completezza che ha pure corpo nelle note gravi, né tanto meno quella interpretativa, immedesimandosi con convinzione nello spirito del circo in cui si è voluto ambientare l’operetta, al punto di prestarsi a lanciare tre palle come un provetto giocoliere, gli hanno posto problemi. Il secondo ha letteralmente ricamato vocalmente la sua parte e, seppure comprensibilmente un po’ impacciato in scena, ha cantato durante il secondo atto il fatidico “duetto del Pavillon”, che ha il suo incipit in “Come di rose un cespo”, come da tempo immemorabile non era dato ascoltare. Sia per pertinenza stilistica, con uso di suoni misti e con dei pianissimo perfettamente timbrati, sia per la smagliante salita e tenuta dell’acuto.
Nel secondo cast, pur risultando nell’insieme accettabile, il risultato è stato inficiato dalla disparità tra i due tenori. Il pur bravo tenore Christian Colla, Danilo, ed il lodevole Camillo di Matteo Mezzaro, dotato di una voce molto timbrata, al punto di sembrare spesso più “scuro” del collega e, dunque, con la relativa confusione derivata dal fatto che negli assieme le voci si confondevano.
Annoverati nel cast gli ottimi Stefano Consolini, una garanzia averlo nel cast di un’operetta, Visconte Cascadà e Mauro Secci, Raoul de Saint Brioche, che hanno fornito momenti di genuina ilarità, gli addetti dell’ambasciata pontevedrina a Parigi, Francesco Musinu, Bogdanowitch, Andrea Schifaudo, Pritscitch ed Enrico Sala, Kromow, che si sono distinti soprattutto nel celebre settimino “E’ scabroso le donne studiar” e le relative mogli, Sylviane (Fulvia Mastrobuono), Olga (Lara Rotili) e Praskowia (Federica Giansanti), le quali hanno dimostrato buone capacità attoriali recitando nella “scena del ventaglio” col Conte Danilo, assolutamente di rilievo nel primo cast la coppia comica fornita da Bruno Praticò, Barone Zeta e Gennaro Cannavacciuolo, Njegus. Se il celebre attore e cantante napoletano è un navigato “cancelliere di ambasciata”, più volte ammirato in svariate occasioni, iniziando dal “defunto” Festival dell’Operetta triestino parecchi anni fa, la relativa sorpresa ce l’ha riserva il basso buffo di Aosta, dotato oltre che di una personalità travolgente, di tempi teatrali perfetti al punto da invertire a tratti il ruolo, risultando lui il comico ed il comico la spalla! La situazione non si è ripetuta nel secondo cast, con il volenteroso baritono venezolano Gustavo Castillo, semplicemente fuori parte in un ruolo che va essenzialmente recitato, anche Cannavacciuolo è parso, in questa situazione, meno convincente.
Ottimo il fronte femminile: le due Valencienne, Maria Laura Iacobellis la sera del 16 ed Ilaria Vanacore il 17. Entrambe vocalmente adeguate e sufficientemente spigliate. Benissimo anche le due protagoniste: la fresca e deliziosa Elisa Balbo, dotata di una voce chiara e facile all’acuto, dominata da una tecnica ottima che le permette di superare gli scogli di una parte tutt’altro che facile e, nel secondo cast; la travolgente Elena Rossi, che ha dalla sua oltre che una vocalità di tutto rispetto, una lunga frequentazione del genere e ciò si è percepito sin dalla sua entrata “Signori miei… troppa cortesia” ed il successivo “Io di Parigi ancor non ho le usanze ben apprese”: strepitosa ed in crescendo in corso dello spettacolo.
Benissimo la direzione di Giuseppe Finzi che, giustamente, si scatena nei momenti briosi, ma cerca la nostalgica e suadente bellezza prima nel “duetto del Pavillon” e poi in un evocatore “Tace il labbro”. Rimane da dire dello spettacolo che, come anticipato, trasporta l’azione in un circo. Blas Roca Rey, regista, ha affrontato diverse difficoltà, tra cui quella del distanziamento, almeno in corso di prova e ciò se è nefasto nell’opera, nell’operetta è tragico. Con la scena unica di Antonella Conte, i fantasiosi costumi di Marco Nateri e l’ottima illuminazione di Andrea Ledda, avvantaggiandosi pure delle coreografie create da Luigia Frattaroli, Roca Rey si è affidato più che sull’azione del singolo, sulla continua azione circense che avveniva dietro i cantanti e spesso in primo termine. Un bailame di orsi, gorilla ubbidienti a un domatore, ed un insieme di pagliacci e maschere ben assortite. La drammaturgia, però, andava forse ripensata; usare quella scritta da Filippo Crivelli, pensata per spettacoli ipertradizionali, come quello maestoso al Teatro di Verdura di Palermo, apportando qualche taglio non è parso sufficiente. Ciò non toglie che lo spettacolo sia stato molto apprezzato dal pubblico che si è attardato a lungo negli applausi spinto dal “moto perpetuo” dell’orchestra sul motivo del “Cake Walk” che apre il terzo atto, in questo caso eseguito di fila dopo il secondo. Un solo breve intervallo, infatti e sempre per ridurre i tempi ed i rischi del contagio.
Andrea Merli