FIRENZE: La forza del destino -Giuseppe Verdi, 10 giugno 2021

FIRENZE: La forza del destino -Giuseppe Verdi, 10 giugno 2021

LA FORZA DEL DESTINO

Giuseppe Verdi

 

Direttore Zubin Mehta
Regia Carlus Padrissa

Personaggi e Interpreti:

  • Leonora Saioa Hernández
  • Don Alvaro Roberto Aronica
  • Don Carlo di Vargas Amartuvshin Enkhbat
  • Preziosilla Annalisa Stroppa
  • Padre Guardiano Ferruccio Furlanetto
  • Fra Melitone Nicola Alaimo
  • Il marchese di Calatrava Alessandro Spina
  • Mastro Trabuco Leonardo Cortellazzi
  • Curra Valentina Corò
  • Un alcade Francesco Samuele Venuti
  • Un chirurgo Roman Lyulkin

    Scene Roland Olbeter
    Costumi Chu Uroz
    Luci e video Franc Aleu

    Solisti del Coro
    Ferruccio Finetti, Leonardo Melani, Luca Tamani

    Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
    Maestro del Coro Lorenzo Fratini

Firenze, Maggio Musicale 2021


Teatro Comunale, 10 giugno 201

Questa di Zubin Mehta al Maggio è la quarta edizione de La forza del destino, quinta se si considera la trasferta giapponese al Bunka Kaikan di Tokyo il 14 marzo del 2011, partendo da una ormai remota produzione di quasi trent’anni fa nel 1992. Ora, la maturità artistica dell’ottatancinquenne Maestro ha raggiunto un apice difficilmente sormontabile, se non da lui stesso, in quanto a profondità nella lettura di uno spartito scandagliato nelle sue più intime pieghe ed illuminato da una luce crepuscolare di innegabile suggestione, empatica emozione e grande fascino sonoro; seguito, va sottolineato, da un complesso orchestrale che si sta dimostrando tra i migliori a livello mondiale, che lo segue con dedizione, grande rispetto ed infinito amore. Tutto ciò palpabile in un’atmosfera che sfiora più volte la magia.

Il cast allineato per l’occasione supera più volte l’eccellenza. Inziando dalla precisa e meticolosa attribuzione dei ruoli di fianco: gli ottimi Chirurgo di Roman Lyulkin, la Curra di Valentina Corò, l’Alcalde di Franceco Samuele Venuti. Di massimo spicco Alessandro Spina, Marchese di Calatrava; disporre poi di un tenore del calibro di Leonardo Cortellazzi per il carattere di Mastro Trabuco corrisponde a ciò che in Spagna si definisce “un lusso asiatico”: finalmente la parte affidata a chi ha tutte le carte in regola, vocali e tecniche, per riscattare questo personaggio dal macchiettismo petulante a cui spesso è condannato. Pari merito ai non meno che eccezionali Melitone e Preziosilla, rispettivamente Nicola Alaimo e Annalisa Stroppa. Lei adattissima per vocalità e personalità nella parte dell’indovina adescatrice e guerrafondaia, senza problemi nell’estensione di una parte ingrata, dove è facile perdere l’intonazione, che la Stroppa ha sempre a fuoco e che punta spesso al Do acuto richiedendo pure una buona scioltezza nelle agilità con la necessità di improvvisi affondi e di polpa nel timbro. Lui, oltre alla vocalità imponente quanto la figura, seguendo una scuola che ha per fulgido esempio il sempre rimpianto Sesto Bruscantini, a cui molti giustamente lo hanno accostato in questo ruolo, ha una presa teatrale, un carisma ed una resa scenica che lo rendono inconfondibile e personalissimo. In un contesto in cui la regia lo mette in serie difficoltà (e ciò purtroppo vale per tutti) iniziando da improponibili costumi e chiedendo un’azione che supera i limiti del grottesco specie nell’ultimo atto, riesce a dare umanità a un personaggio che è buffo solo sulla carta, ma in cui Verdi mette alla berlina il genere ecclesiastico opportunista. Il suo Melitone, dalle mille ed una sfaccettature, compreso un tocco di irrispettosa petulanza nel duetto con il Padre Guardiano, ce lo ricorderemo a lungo.

Ferruccio Furlanetto rimane sempre un riferimento di vocalità imponente e di grande professionalità. Il suo Padre Guardiano, nonostante l’impossibile costume in lamé dorato che nemmeno Wanda Osiris avrebbe osato nel discendere le scale e quindi alla fine combinato come un cavernicolo, possiede l’autorità vocale, il carisma scenico e anche quell’aura ascetica ed il colore dell’eremita dedito al culto ed alla meditazione.

Imponenti, infine, i tre veri protagonisti: Don Carlo di Vargas, il debuttante di ruolo, Amartuvshin Enkhbat, l’artista della Mongolia in cui è confluita una cooperativa di baritoni tra cui Renato Bruson, Piero Cappuccilli e, come alcuni amici fiorentini mi hanno ricordato, l’indimenticato Gian Giacomo Guelfi. Il timbro privilegiato, la dovizia di una voce messa al servizio di una linea musicale adamatina, confluiscono in un personaggio che già al debutto ne fa intuire futuri sviluppi in un contesto teatrale in cui le potenzialità possano essere esaltate. Già così impressionante e meritorio del primo tra i più convinti applausi a scena aperta dopo l’aria del terzo atto “Urna fatale”. Roberto Aronica, tenore che seguo con grande stima ed attenzione sin dai suoi esordi in un repertorio squisitamente belcantistico (il pensiero corre ad un suo giovanile Edgardo in Lucia di Lammermooor a Baltimora) rappresenta l’ideale evoluzione di una vocalità che ora ha raggiunto la sua identità nel repertorio lirico spinto. Seppure più volte messo a dura prova dall’eccessivo allargamento delle frasi musicali, non ha avuto difficoltà apparente nel sostenere né l’emissione né, tanto meno, nell’affrontare gli scogli in acuto di cui la parte è disseminata. Si aggiunga il bel colore, il timbro maschio e la felicità di un fraseggio ben scandito e di un accento del pari scolpito e si avrà l’immagine di un Alvaro veemente, infuocato, ma pronto all’introspezione, al canto sfumato ed al legato, nella stupenda aria “Oh, tu che in seno agli angeli” che apre il terzo atto.

Infine il soprano Saioa Hernandez, Leonora, dalla voce imperiosa che ne fa un personaggio determinato, dal carattere forte, vittima del destino sì, ma risoluta nella sorte e nell’amore. Perfetta su tutte le dinamiche, dal pianissimo al fortissimo, coinvolgente tanto nella prima “Me pellegrina ed orfana”, aria che spesso “a freddo” passa senza lasciar traccia, quanto e soprattutto in quella di apertura davanti al convento “Madre, pietosa Vergine” ed infine tra i dirupi dell’ultimo quadro “Pace, pace mio Dio”, è risultata coinvolgente nei duetti, il primo con Alvaro nel prologo, ma soprattutto nel “duettone” con il Padre Guardiano, toccando l’apice nel finale manzoniano, quello della redenzione al suono dell’arpa. Bravissima.

Ottimo il Coro egregiamente diretto dal Maestro Lorenzo Fratini.

Dello spettacolo di Carlus Padrissa, a capo de La Fura dels Baus, si sono già versati fiumi di inchiostro e perciò non insisteremo nel dilungarci. In poche parole, una produzione inutile, brutta, “sporcata” da continui intralci di attrezzisti in scena per movimenti gratuiti, con dei costumi che a definire orripilanti gli si fa un complimento, senza una vera ed originale idea registica attinente alla drammaturgia di Piave e Verdi (o di Saavedra, il Duque de Rivas, in ultima analisi) aggravata da lunghi cambi scena e da didascalie sinceramente risibili e, probabilmente, dei piccoli ma fastidiosi tagli nello spartito ivi compreso lo spostamento della Ronda del terzo atto: tutto sommato, e visto il contesto, peccati veniali. La trovata finale, citando Einstein, di finire come i cavernicoli Flintstones di “Wilma dammi la clava!” è stata la ciliegina, si fa per dire, sulla torta.

Andrea Merli

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