FIRENZE: ADRIANA LECOUVREUR – Francesco Cilea, 30 aprile 2021
ADRIANA LECOUVREUR
Francesco Cilea
Direttore Daniel Harding
Regia Frederic Wake-Walker
Personaggi e Interpreti:
- Adriana Lecouvreur María José Siri
- Maurizio, Conte di Sassonia Martin Muehle
- La principessa di Bouillon Ksenia Dudnikova
- Michonnet Nicola Alaimo
- L’abate di Chazeuil Paolo Antognetti
- Il principe di Bouillon Alessandro Spina
- M.lle Jouvenot Chiara Mogini
- M.lle Dangeville Valentina Corò
- Quinault Davide Piva
- Poisson Antonio Garès
- Un maggiordomo Michele Gianquinto
Scene Polina Liefers
Costumi Julia Katharina Berndt
Luci Marco Faustini
Coreografia Anna Olkhovaya
Danzatori Anna Olkhovaya, Chiara Ferrara, Erika Rombaldoni, Giulia Mostacchi, Sebastiano Marino, Matteo Zorzoli
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Teatro Comunale, 30 aprile 2021
LXXXIII Maggio Musicale Fiorentino
Il mio autoconfinamento catalano, all’insorgere della seconda “ondata” della pandemia durante lo scorso mese di ottobre, ha avuto tra gli altri vantaggi quello, certo non trascurabile per un melomane, di poter assistere a varie recite d’opera in diversi teatri, privilegio e fortuna che nella stragrande parte del mondo, iniziando dal nostro Bel Paese, pochi hanno avuto.
Non di meno, seppur fortuitamente piombato a Firenze durante un’incursione lampo sul patrio suol, poter rientrare in un teatro italiano, con pubblico e in compagnia di amici, è stato momento di grande emozione. Ci si inchina con gratitudine e riconoscenza a chi, in questa stressante lotta per la sopravvivenza, ha offerto questo momento gioioso e lo spiraglio di speranza per una rapida, ci si auspica, normalizzazione dell’attività operistica.
Coraggio e determinazione hanno operato i loro frutti. Adriana Lecouvreur, spettacolo di apertura della 83esima edizione del Maggio, era opera molto popolare un tempo, molti dei suoi versi rientrano nel linguaggio abituale del melomane di giurata fede operistica, ma è ormai quasi uscita dal cosiddetto “repertorio”. Nella documentata introduzione all’opera, Giovanni Vitali, oltre a centrare la genesi fiorentina della partitura – Cilea dimorò a Firenze proprio nel periodo della gestazione dell’opera – tocca due punti essenziali: il primo rinnegando l’aggettivazione “verista” ad una azione teatrale e ad una musica che poco o nulla hanno da spartire con i due caposaldi del genere, Cavalleria rusticana e Pagliacci per intenderci, poiché Cilea, in omaggio alla storia francese già musicata per altro su libretto di Scribe, può considerarsi più vicino al tardo romanticismo di un Massenet, con la rievocazione del Settecento che sta alla radice di Manon e che ritroviamo, in chiave più napoletana, in Adriana. Il secondo sta nel sottolineare la sottigliezza, eleganza e ricchezza di una linea melodica soggiogante, di ampio respiro ed orchestrata con tale sapienza da rendere l’opera un unicum, non solo di Cilea di cui gli altri titoli, non privi di interesse, non raggiunsero mai la fama e popolarità del suo capolavoro, ma del Novecento musicale italiano.
A metterne in risalto queste indubbie qualità a Firenze ci ha pensato Daniel Harding, a capo dell’orchestra del Maggio – uno dei complessi orchestrali migliori e non solo in Italia – stimolata e molto impegnata sotto la bacchetta del direttore inglese, il quale ha fornito una lettura entusiasmante. La cura del dettaglio, la pulizia e precisione degli attacchi, le dinamiche articolate in una trasparenza mozartiana che cede il passo ad ondate sonore di sapore straussiano, l’agogica mai fine all’effetto, ma consapevole del valore teatrale della parola cantata, quest’ultima sostenuta idealmente con slancio, ma anche con un respiro dettato da ragioni musicali, hanno fatto gridare al miracolo in molti, specie coloro che quest’opera non conoscevano o la avevamo ascoltata in produzioni dove la componente musicale, l’orchestra volenterosa di tanti teatri di provincia complice a volte lo scarso periodo di prove, non poteva metterne in luce le squisitezze. A Firenze l’orchestra, grazie ad Harding, si è elevata a ruolo di protagonismo assoluto in un’opera spesso in passato relegata al compito di mero accompagnamento. Non di meno, e lo dice uno che di Adriane ha fatto letteralmente incetta nell’arco di oltre 50 anni di frequentazione teatrale, non rinnego certo le emozioni che sono scaturite da altre validissime esecuzioni, sia vocali che direttoriali, e che a Cilea hanno reso altrettanti ottimi servizi.
Sulla solidità e caratteristiche tecnico-vocali di Maria José Siri ho in gran parte già riferito nel recensire lo spettacolo del suo debutto di ruolo, poco più di un mese fa a Las Palmas di Gran Canaria. Anticipai allora che, oltre all’esito felicissimo e trionfale, il margine di maturazione ci avrebbe riservato grandi soddisfazioni; posso confermare che, con queste recite fiorentine, la Siri si conferma interprete di assoluto riferimento. E non solo per la vocalità rigogliosa che idealmente ci riporta ai suoni pieni e rotondi di una Tebaldi, pur con un colore forse più chiaro e meno matronale, per la facilità nel dosare sia i fiati in splendide messe in voce, quanto nel porgere in piano e pianissimo suoni di bellezza seducente, soprattutto per una visione del personaggio che si pone con una precisa personalità, evitando ogni possibile accostamento alle pur gigantesche figure che in un passato, più o meno recente, hanno vestito i panni della sventurata Lecouvreur. Ciò mi pare nota di grande intelligenza interpretativa. La Siri, specie in questa lettura aderentissima allo spartito, trova un giusto equilibrio tra l’enfasi della recitazione ed il canto, per esempio nel celebre monologo dalla Fedra di Racine nel terzo atto, raggiungendo l’apice nel quarto, dopo aver cantato superlativamente sin dal suo ingresso la fatidica e celeberrima “Umile ancella”, con l’esecuzione lancinante per sofferta espressività dei “Poveri Fiori”, infine con un finale, preceduto da un rabbrividente “Scostatevi profani! Melpomene son io”, quasi evanescente per trasognata dolcezza, dove l’accompagnamento orchestrale – seguito con un “silenzio sepolcrale” dal pubblico, assolutamente avvinto – ha raggiunto vette paradisiache.
Che Michonnet sia il vero antagonista di Adriana Lecouvreur, per l’amorosa cura con cui segue senza speranza l’oggetto del desiderio di cui si rassegna a ritenersi “un padre, almen”, l’ho sempre pensato. Quest’opera, profondamente umana, vede gli eroi nei personaggi più ingenui, disinteressati e semplici, quasi che, nonostante il principe, la principessa e una duchessa, che si nomina solo, ma s’intuisce essere della stessa pasta, fosse il manifesto della “povera gente”, povera sì ma di sentimenti veri. Nicola Alaimo rappresenta l’incarnazione perfetta del personaggio, non solo per l’imponente vocalità e l’aderenza musicale assolute, quanto per la naturalezza nell’esposizione della parola cantata, per il fraseggio partecipe e vario, per l’accento accorato e sincero che rende ulteriore umanità al personaggio più simpatico dell’opera.
La Principessa di Bouillon è uno dei ruoli più perfidi e cattivi, anzi “Kattivissimi” per citare il libro per i piccoli melomani della cara amica Cristina Bersanelli. Nobile solo nel titolo, in realtà una ninfomane assatanata che sfruttando la posizione a corte e le sue influenze politiche con ministri di vario tipo, ricatta sessualmente il Conte di Sassonia, quel Maurizio realmente esistito, aspirante al regno di Polonia oltre che vincitore della guerra di Curlandia. Il librettista Arturo Colautti, dalmata di nascita, era un ottimo letterato e le frasi che mette in bocca alla Principessa non sono casuali. “Che amate un’altra di me più scaltra” definisce chiaramente un personaggio ai cui “baci procaci e cocenti” non vede l’ora di sottrarsi il bel Maurizio. Bella sorpresa, almeno per me, la finora ignota Ksenia Dudnikova, voce poderosa di autentico mezzosoprano, con autorevole discesa in zona grave e facile in acuto, presenza scenica e veemenza che hanno reso benissimo l’aborrita rivale.
Il tenore brasiliano Martin Muehle si è ritrovato al posto del previsto Fabio Sartori nella parte di Maurizio di Sassonia, cui è richiesto un canto appassionato, ma giocato tutto sul cosiddetto “passaggio di registro” la zona più pericolosa per ogni tenore, con accensioni battagliere, ma anche con frasi da intonare a mezza voce in pianissimo: se l’è cavata con onore. Gli manca, non si può avere tutto, quel colore solare, latino di un Carreras o di un Alagna (giusto per fare due esempi tra i tanti tenori che ho ascoltato nei panni di Maurizio) ma la proiezione in acuto è gagliarda, l’intonazione sempre a fuoco e l’interprete convincente. Bene, benissimo sia l’abate mercuriale del tenore Paolo Antognetti che il Principe del basso Alessandro Spina, dotato di un tocco ironico, il ché non guasta. Perfetti anche i quattro soci della Comédie, sia per la precisione musicale, che per la giusta proiezione delle frasi esposte: “Il ninnolo della moglie” in bocca a Poisson, il tenore Antonio Garés, “Moliere vi ascolta là” di Quinault, il basso Davide Piva, “Volete dir: si spoglia”, la Jouvenot soprano Chiara Mogini, “Abate, eccovi il mio ventaglio!”, la Dangeville, mezzosoprano Valentina Corrò. Bene, per quel poco che conta in quest’opera, pure il coro istruito da Lorenzo Fratini.
Di questi tempi si dovrebbe varare un decreto ministeriale per cui si vietano le stroncature: infatti, visto il procedere della pandemia, seppure in progressiva recessione, possiamo solo far fronte comune e sostenere qualsiasi attività teatrale. In tal senso non ci si soffermerà sullo spettacolo, dove si è verificata in corso d’opera la sostituzione del regist,: al previsto Jurger Flimm è subentrato Frederic Wake-Walker che si è trovato un allestimento già pronto e firmato da Polina Liefers per le scene, da Julia Katharina Berndt per i costumi, con le coreografie di Anna Olkhovaya e le luci di Marco Faustini, che generosamente definiremo funzionale e sostanzialmente innocuo.
Andrea Merli