Teatro alla Scala: GIULIO CESARE – Georg Friedrich Haendel, 23 ottobre 2019
Georg Friedrich HÄndel
GIULIO CESARE IN EGITTO
Opera in tre atti
Libretto di Nicola Francesco Haym
da Giacomo Francesco Bussani
(Hallische Händel-Ausgabe a cura di Frieder Zschoch. Copyright ed edizione Alkor-Bärenreiter, Kassel; rappr. per l’Italia Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano)
Nuova produzione Teatro alla Scala
Direttore GIOVANNI ANTONINI
Regia ROBERT CARSEN
Personaggi e interpreti:
- Giulio Cesare Bejun Mehta
- Cleopatra Danielle de Niese
- Cornelia Sara Mingardo
- Sesto Pompeo Philippe Jaroussky
- Tolomeo Christophe Dumaux
- Achilla Christian Senn
- Curio Renato Dolcini
- Nireno Luigi Schifano
Scene e costumi GIDEON DAVEY
Luci ROBERT CARSEN e peter van praet
Video designer WILL DUKE
Coreografia REBECCA HOWELL
Drammaturgo IAN BURTON
ORCHESTRA DEL TEATRO ALLA SCALA SU STRUMENTI STORICI
Maestro del Coro BRUNO CASONI
Teatro alla Scala, 23 ottobre 2019
Torna alla Scala dopo un’unica e fugace apparizione nel 1956 Giulio Cesare di Haendel e la si può considerare, a tutti gli effetti, una “prima” assoluta per il teatro milanese in quanto ora presentata secondo i crismi e le garanzie filologiche, stilistiche e musicali, laddove 63 anni fa, limitandoci ad un solo esempio, oltre ai tagli di intere scene e poi delle riprese e dei da capo delle arie, il cast era formato sì da nomi illustri, ma tutti artisti estranei al barocco. Guardando il cartellone si evince che i ruoli maschili, pensati e musicati nella quasi totalità per cantori evirati e soprano, furono affidati nell’ordine al basso Nicola Rossi-Lemeni, Giulio Cesare, al tenore Franco Corelli, Sesto, ai bassi Mario Pietri (Tolomeo) Antonio Cassinelli (Achilla) e Ferruccio Mazzoli (Nireno), vestendo i panni rispettivamente di Cleopatra e di Cornelia, Virginia Zeani e Giulietta Simionato. Sul podio un direttore di prestigio, ma dalle forbici facili, non solo con il barocco, Gianandrea Gavazzeni.
La prima nota positiva, dunque, in questo caso riguarda proprio la lettura musicale affidata a Giovanni Antonini, che definire “specialista” è riduttivo. Una direzione la sua degna della massima lode anche nella scelta dei brani da elidere nella suddivisione dei tre atti in due tempi, per un totale di sola musica che rasenta le tre ore e mezza. L’orchestra della Scala, su strumenti storici, ne esce vittoriosa e così il coro nei sui brevi interventi, come sempre istruito da Bruno Casoni. Una lettura molto teatrale, un sostegno ideale per le voci, in specie quelle dei controtenori che, in uno spazio sproprorzionato per il genere come lo è la sala del Piermarini, rischierebbero altrimenti di essere sopraffatte. Colori e dinamiche garantiti e ben amministrati, una tensione teatrale che non conosce cedimenti.
Per quanto riguarda i solisti, grande sfoggio di controtenori: il celebre e sempre celebrato Bejun Mehta, Cesare, Christophe Dumaux, Tolomeo (che è parso il migliore in campo), Luigi Schifano, Nireno (un elemento da seguire con attenzione) ed il sopranista Philippe Jaroussky, Sesto dal timbro adolescenziale, come tale acido e piuttosto sgradevole. Achilla e Curio due bravi baritoni: Christian Senn e Renato Dolcini. Cornelia la nostra sempre eccezionale Sara Mingardo e Cleopatra il soprano Danielle De Niese, in sostituzione della prevista Cecilia Bartoli; non ha fatto rimpiangere la più celebre collega. La presenza della bravissima e bellissima (il ché non guasta mai, specie se si è Cleopatra!) De Niese in virtù di una resa musicale e interpretativa superlative, da sola vale il prezzo del biglietto.
Lo spettacolo: si tratta di una nuova produzione per la regia di Robert Carsen, affiancato dal suo solito e solido “team“. Gideon Davey, ha firmato scene e costumi, Peter Van Praet le luci, Rebecca Howell coreografa, Will Duke autore dei video e Ian Burton in veste di drammaturgo. Ovviamente la trasposizione ai tempi moderni è d’obbligo e dunque gli egiziani sono gli arabi del petrolio (Cleopatra alla fine inaugura l’oleodotto voluto da Cesare) ma anche i terroristi dell’Isis, violenti e cattivissimi; viceversa i romani, come nei film “peplum” del resto, sono sempre e sistematicamente buoni e cioè probabilmente americani, le “forze di pace” e comunque occidentali. Ora, che Carsen sia un bravo regista, che sappia far muovere i solisti e la lunga schiera di ballerini e figuranti con un ritmo cinematografico e che lo spettacolo nella sua sostanziale gradevolezza sia “piacione” ed ottenga il consenso del pubblico che – udite udite – ride e si diverte, non ci piove. Non staremo qui a sottolineare le cose già viste, sia in altri spettacoli di Carsen che in altri allestimenti – anche del Giulio Cesare: penso a quello di Ronconi visto a Genova – ma si nota l’insinuarsi di una certa routine autocompiaciuta nel talentuoso regista canadese.
Faccio poi due personalissime considerazioni. La prima è che i controtenori e sopranisti, laddove si intenda dare un’immagine contemporanea al tutto, risultano assai ridicoli quando nella veste di super macho palestrati e barbuti aprono poi bocca ed emettono falsetti, considerazione a parer mio non marginale e già sottolineata da altri: se i castrati fossero effettivamente equiparabili agli attuali e pur bravi controtenori, non sarebbe stato necessario sacrificarne i “gioielli di famiglia”. E dunque, a parte alcuni casi isolati (mi riferisco per esempio all’argentino Franco Maximiliano Fagioli e allo straordinario giovane brasiliano Bruno De Sa) la voce di un mezzosoprano o contralto in travesti è, a mio modesto avviso preferibile. La seconda considerazione è che, dati i tempi e ciò che sta accadendo nel mondo – penso al Medio Oriente, alla Turchia, ai Curdi… – non vedo l’opportunità di sottolineare con ironia e sarcasmo una situazione che potrebbe urtare più di uno. Insomma, il mio amico Amer, medico rifugiato siriano che sta ultimando il riconoscimento del titolo in medicina all’Umanitas e che mi ha raccontato cose terribili avvenute alla sua famiglia, non lo porterei a vedere questo spettacolo.
Dopo di ché si è apprezzato lo sforzo di tutti, la bravura degli interpreti e, soprattutto, il calore con cui il pubblico, insolitamente numeroso, ha sottolineato le singole arie e, finalmente, ha tributato un’accoglienza entusiastica. Sta a vedere che il barocco fa finalmente “tendenza” in Italia!
Andrea Merli