Teatro alla Scala: Elisir d’amore – 10 settembre 2019
L’ELISIR D’AMORE
Melodramma giocoso in due atti
di GAETANO DONIZETTI
su libretto di Felice Romani
(Edizione critica a cura di A. Zedda; Casa Ricordi, Milano)
Prima rappresentazione: Milano, Teatro della Cannobiana, 12 maggio 1832
Produzione Teatro alla Scala
Direttore MICHELE GAMBA
Regia GRISCHA ASAGAROFF
Personaggi e interpreti principali
- Adina Rosa Feola
- Nemorino René Barbera (settembre)
- Belcore Massimo Cavalletti
- Dulcamara Ambrogio Maestri
- Giannetta Francesca Pia Vitale
Scene e costumi TULLIO PERICOLI
Luci HANS-RUDOLF KUNZ
CORO E ORCHESTRA DEL TEATRO ALLA SCALA
Maestro del Coro BRUNO CASONI
Teatro alla Scala, 10 settembre 2019
La ripresa di quest’Elisir, che vide la luce della ribalta 21 anni fa ma con altra regia, rientra nella programmazione di fine estate, una sorta di riempitivo, assieme al Rigoletto con gli allievi dell’Accademia guidati da Leo Nucci, in attesa dei più alettanti Giulio Cesare di Handel e la straussiana Elena egiziaca che chiuderanno la stagione in autunno.
Spettacolo piuttosto polveroso, che ha nell’inconfondibile tratto del disegno di Tullio Pericoli la massima attrattiva, ma che la regia di Grisha Asagaroff e la direzione musicale di Michele Gamba affondano in una desolante routine. Il primo sprovvisto di un’idea che sia autenticamente originale, incline a concedere tutte le caccole possibili ai solisti, alcuni dei quali vi si lanciano con entusiasmo. Il secondo, dopo aver “salvato” in extremis una recita in cui all’ultimo minuto il titolare si sentì male, debutta ufficialmente in Scala alternando ritmi precipitosi a improvvisi rallentamenti, prevalendo il frastuono – cosa riesca a combinare la banda in scena a inizio secondo atto lascia perplessi – a discapito delle voci, lasciate più volte allo sbaraglio e spesso condannate a cantare dal fondo scena. A ciò si aggiunga la scelta di eseguire i cosiddetti “tagli di tradizione” a uno spartito che oggi esige, specie alla Scala, di essere eseguito integralmente, rimandandoci così ad una prassi esecutiva che si credeva estinta con gli anni Settanta dello scorso secolo. L’orchestra ed il coro, come sempre affidato alle cure di Bruno Casoni, hanno fatto quello che hanno potuto.
Ciò detto, sono stati tutti accolti con grandi acclamazioni dal pubblico, non molto folto quello della “prima”, assai ben disposto a tributare applausi a scena aperta. Specie al tenore, René Barbera, che ha dato vita ad un robusto Nemorino cantato con generosità e con sufficiente spirito; alla pur brava Rosa Feola, pepata Adina dal bel colore e dovizioso corpo di voce. Ambrogio Maestri, Dulcamara, trionfa facilmente con la sua dilagante personalità e con una voce ampia, potente; di certe libertà, seppure divertenti per buona parte del pubblico, del ciangottio di parole in aggiunta al testo cantato – quasi non bastassero i versi di Felice Romani – ne potrebbe tranquillamente fare a meno, ma rientrano nel tracimante personaggio. Massimo Cavalletti, Belcore, sembra abbia timore di mostrarsi per quel che dovrebbe essere, un “miles gloriosus” alla bergamasca: la voce corre, è di bella grana e tanto gli basta per avere successo. Rimane la Giannetta, per fortuna graziata del taglio del quartetto al secondo atto: Francesca Pia Vitale vi si è disimpegna con destrezza.
Andrea Merli