TEATRO ALLA SCALA: I MASNADIERI – GIUSEPPE VERDI, 7 luglio 2019

TEATRO ALLA SCALA: I MASNADIERI – GIUSEPPE VERDI, 7 luglio 2019

I MASNADIERI

Opera tragica in quattro atti

dalla tragedia Die Räuber di Friedrich Schiller

Libretto di Andrea Maffei

Musica di GIUSEPPE VERDI

(Edizione critica a cura di Roberta Montemorra Marvin;

the University of Chicago Press e Casa Ricordi, Milano)

Prima rappresentazione: Londra, Her Majesty’s Theatre, 22 luglio 1847

Prima rappresentazione al Teatro alla Scala: 20 settembre 1853

Nuova produzione Teatro alla Scala

 

Direttore MICHELE MARIOTTI

Regia DAVID McVICAR

 

Personaggi e interpreti

  • Massimiliano Michele Pertusi
  • Carlo Fabio Sartori
  • Amalia Lisette Oropesa
  • Francesco Massimo Cavalletti
  • Arminio Francesco Pittari
  • Moser Alessandro Spina
  • Rolla Matteo Desole

Scene CHARLES EDWARDS

Costumi BRIGITTE REIFFENSTUEL

Luci ADAM SILVERMAN

Movimenti coreografici JO MEREDITH

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala

Maestro del Coro BRUNO CASONI

Teatro alla Scala, 7 luglio 2019


L’ultima recita di questi fortunati Masnadieri, che tornano in Scala dopo 41 anni di assenza, è stata dedicata con un sentito e commovente omaggio, che ha preceduto l’inizio dell’opera, a Giuseppe Belanca, il 48enne artista del coro deceduto due giorni prima per un tragico incidente stradale mentre rincasava in moto, in piazzale Ovidio a Milano. Tutti gli artisti, buona parte delle maestranze in scena dove Alexander Pereira, con la voce rotta dall’emozione, ha ricordato la figura dell’ancora giovane tenore, musicista a tutto tondo ed apprezzato da tutti come collega spiritoso e partecipe. Sul palco anche la moglie ed i due figlioli, ancora adolescenti, mentre la tromba in orchestra ha eseguito l’assolo di Nino Rota da “La strada”. Un minuto di silenzio e di palpabile commozione che ha pervaso anche tutto il pubblico.

Tornando allo spettacolo ed alla musica, si tratta di una delle recite di maggior successo e realizzazione tra quelle della presente stagione. Sebbene l’allestimento firmato per la regia da David McVicar (scene di Charles Edwards, costumi di Brigitte Reiffenstuel, luci di Adam Silverman e movimenti coreografici di Jo Meredith) deluda parzialmente; per un uso esagerato, rumoroso e prevaricante della figurazione e per la sovrapposizione di un personaggio che rappresenta essere lo stesso Friedrich Schiller ai tempi della sua formazione all’accademia militare Solitude per volontà del duca tedesco e tiranno Karl Eugen. Tutto ciò complica ulteriormente la comprensione di una vicenda già di per sé piuttosto arruffata nella versione librettistica di Andrea Maffei, ineffabile autore di versi quali “Le rube, gli stupri, gl’incendi, le morti per noi son balocchi, son meri diporti” o, peggio, “Vuo’ la strage alle mie terga, lo spavento innanzi a me” come intona lo sventurato Carlo.

Uno spettacolo sostanzialmente tradizionale con una scena unica, l’interno della caserma che pian piano si va sgretolando, incendiando e finalmente appare distrutta; posiziona il coro quasi sempre piazzato su un loggiato (elemento che sembra ormai d’obbligo dopo l’Attila inaugurale, la Kovancina e la recente Manon Lescaut) lascia i solisti la maggior parte del tempo in proscenio, il che di per sé non sarebbe un male se accompagnato da una precisa idea registica. Da McVicar ci si sarebbe attesi di più.

Viceversa, specie in quest’ultima recita quando l’opera è stata abbondantemente metabolizzata, poiche tutti vi hanno debuttato, musicalmente le vette sono state altissime. Iniziando dalla prestazione del coro, puntuale e sempre omogeneo grazie al lavoro del mai troppo lodato Maestro Bruno Casoni e dell’orchestra, quella della Scala che possiede nel DNA la “tinta” verdiana, specie se a dirigerla c’è chi la sa trarre anche da uno spartito né facile né popolare, ma che dista assai da quel coacervo di brutture che molti, anche musicologi di chiara fama, vi vogliono scorgere. E’ certo un Verdi gagliardo nelle formule chiuse di arie e cabalette che si susseguono con ritmo assillante, ma lo spirito genuino e rampante della “masnada” c’è tutto e anche abbondano le oasi liriche di assoluta bellezza, specie quelle affidate all’unica voce femminile, Amalia. Basterebbe la scena in cui Francesco è tormentato dagli incubi e il successivo intervento di Moser, il pastore che lo condanna, a giustificare la grandiosità dell’opera che ha tutto il diritto di figurare più spesso e non una volta ogni quaranta anni in cartellone.

Michele Mariotti coglie in pieno questo spirito verdiano, la tinta e lo spirito quarantottesco di ribellione che trapela da spartito e testo, spiccando tempi spediti ma anche accompagnando idealmente il canto, a sostegno sempre dei solisti anzi suggerendo loro intenzioni e incitandoli ad un fraseggio pregnante e sempre scolpito. Il cast è parso davvero ottimo ed è stato giustamente festeggiatissimo da un pubblico molto partecipe anche in corso di recita sottolinenando un condivisibile entusiasmo a scena aperta.

Ottimi nei ruoli di fianco tanto il Rolla del tenore Matteo Desole quanto l’Arvinio – parte più esposta in quanto partecipa ad un quartetto nel primo atto – del bravo Francesco Pittari. Alessandro Spina, nel breve ma incisivo ruolo di Moser, ha avuto l’autorità e l’aplomb necessari. Michele Pertusi è parso un vero lusso nella parte del vecchio Massimiliano, Conte di Moor, tanto scenicamente (col tremolio della mano, come se affetto dal morbo di Parkinson) quanto soprattutto vocalmente, stagliando un personaggio memorabile, gratificato giustamente da un applauso dopo l’arioso “Un ignoto, tre lune saranno” eseguito magistralmente.

Il terzetto baritono, soprano e tenore non poteva essere meglio assortito: Massimo Cavalletti, Francesco, si conferma elemento in crescita e destinato a brillante carriera. La voce è di quelle baciate da Dio, si sa, e l’artista sta raggiungendo la piena maturità, tanto nel controllo dello strumento che trova nell’acuto lo sfogo più brillante, quanto nelle intenzioni drammatiche, qui in bella evidenza soprattutto nella sua ultima scena. Di Lisette Oropesa, Amalia, precedentemente udita solo in un’aria eseguita negli studi della RAI di Roma in occasione della celebrazione dei trenta anni de “La barcaccia”, ci si è innamorati immediatamente: oltre all’interprete trepidante e sensibile, ha incantato la facilità e bellezza del canto, dove il soprano riesce a dominare tutte le dinamiche, a svettare con limpidezza in acuto e ad essere quanto mai espressiva nel fraseggio e seducente nell’accento della giovane innamorata. Perfetta già nella sortita “Lo sguardo avea degli angeli” ha raggiunto l’apice nella scena del cimitero cesellando un’aria e la cabaletta, ovviamente col da capo squisitamente variato, che apre il secondo atto. Ci si augura di riaverla presto in Scala e, in generale, in Italia.

Infine il protagonista, il tenore Fabio Sartori, Carlo. Ideale per questi titoli verdiani dove il colore, il timbro e l’espressività rendono al massimo sia nel canto spianato di “O mio castel paterno”, laddove la lacrima pare spuntare dalla voce, quanto nell’infuocata cabaletta “Fiere umane, umane fiere” dove trova slancio e potenza di armonici. Per poi ammorbidirsi nel canto fior di labbra nel duetto con Amalia “Premi il tuo cor sul mio!”. Alla fine interminabili chiamate prima di partire in tournée per la Finlandia, ospiti del Festival di Savonlinna.

Andrea Merli

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