PARMA: LE TROUVÈRE – Giuseppe Verdi, 29 settembre 2018
LE TROUVÈRE
Opera in quattro atti su libretto di Salvadore Cammarano
Traduzione francese di Émilien Pacini
Musica GIUSEPPE VERDI
Edizione critica a cura di David Lawton, eseguita in prima assoluta.
The University of Chicago Press, Chicago e Casa Ricordi, Milano
Maestro concertatore e direttore ROBERTO ABBADO
Ideazione, regia, scene e luci ROBERT WILSON Co-regia NICOLA PANZER
Personaggi e Interpreti
- Manrique, le Trouvère GIUSEPPE GIPALI
- Le Comte de Luna FRANCO VASSALLO
- Fernand MARCO SPOTTI
- Ruiz LUCA CASALIN
- Léonore ROBERTA MANTEGNA
- Azucena, la Bohémienne NINO SURGULADZE
- Inès TONIA LANGELLA
- Un Bohémien NICOLÒ DONINI
- Un messager LUCA CASALIN
Luci GIUSEPPE DI IORIO
Collaboratore alle scene STEPHANIE ENGELN
Collaboratore alle luci SOLOMON WEISBARD
Costumi JULIA VON LELIWA
Make-up design MANU HALLIGAN
Video TOMER JEZIORSKI
Drammaturgia JOSÈ ENRIQUE MACÍAN
Maestro del coro ANDREA FAIDUTTI
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
In coproduzione con Fondazione Teatro Comunale di Bologna, Change Performing Arts
Festival Verdi – Teatro Farnese, Parma 29 settembre
LE TROUVERE
La versione francese del Trovatore, Le Trouvere data in “prima” a l’Opéra di Parigi il 12 gennaio del 1857, su libretto di Emilien Pacini, adattamento dell’originale italiano del Cammarano, è a tutti gli effetti un’altra opera di Verdi. Non solo l’aggiunta del corposo ballo nel terzo atto, per ottemperare ad una conditio sine qua non del massimo teatro francese, ma i numerosi aggiustamenti per le esigenze del nuovo libretto, che comprende un finale meno precipitoso e teatralmente di maggior effetto, apportati per adattare la musica al nuovo testo, comportano soluzioni sorprendenti per chi ha in mente l’opera originale. Arrangiamenti che “addolciscono”, se così si può dire, la più diretta, a tratti violenta, esposizione della versione italiana universalmente conosciuta. L’invocata “tinta” qui è avvolta sì nel mistero della notte, ma con sfumature diverse, meno cupe: delle nuances molto più tenui. La stessa “pira” risulta meno infiammata. Sorprende, infine, nell’economia del “grand opera”, il taglio della cabaletta di Leonora “Tu vedrai che amore in terra”, ormai entrata nella attuale prassi esecutiva, ma che a Verdi, in tale occasione, parve superflua.
Bene ha fatto, dunque, la direzione del Festival nell’offrire questa interessante avvicinamento che in Italia, e forse nel mondo, ha avuto in tempi moderni un’unica ripresa nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca durante il Festival della Valle D’Itria del 1998, non a caso sotto l’egida del compianto Sergio Segalini. Meno bene proporla all’interno del Teatro Farnese, dall’acustica infelice, rimbombante essendo stato concepito per tutt’altre manifestazioni e non per l’opera. Per fortuna verrà definitivamente – c’è da augurarselo – abbandonato dalla prossima edizione del Festival 2019. La pur interessantissima direzione del Maestro Roberto Abbado, assai felice nella scelta dei tempi e delle agogiche, il lodevole lavoro dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna e del coro felsineo, sempre sotto la guida di Andrea Faidutti, sono stati in parti vanificati da un impasto sonoro mal definibile nello spazio dispersivo dell’enorme sala. Meglio la resa del canto, anche perché idealmente sostenuto dal podio, ma a onor del vero gran parte della parola cantata risultava scarsamente intellegibile e non per demerito dei solisti.
Tra questi va lodata in primis Roberta Mantegna, giovane soprano che ormai si impone nei teatri italiani, che ha dato vita ad una Léonore vivida e palpitante, dovendo affrontare una scrittura che nella versione francese offre maggior articolazione nelle cadenze. Così pure è piaciuta, e molto, la Azucena incarnata dal mezzosoprano georgiano Nino Surguladze che si avvantaggia, nello specifico, di una tessitura più acuta nella versione francese, pur possedendo un corpo di voce apprezzabile in zona centrale e grave. Ottimo Le Comte de Luna del baritono Franco Vassallo, dalla voce ben timbrata e ricca di armonici; perfettamente in parte il tenore albanese Giuseppe Gipali, professionista di solida e lunga carriera in Italia, che risulta qui ancor più “trovatore”, nel senso poetico del termine, per eleganza nell’esposizione del canto. Completano il cast l’autorevole Fernand del basso Marco Spotti, l’avvenente Ines del soprano Tonia Langela, Un vieux Bohémien dalla voce giovanile, il basso Nicolò Donini e, nella doppia parte di Ruiz e di Un Messager, il valente tenore Luca Casalin.
Rimarrebbe da commentare lo spettacolo che, come cita il programma di sala è completa ideazione, regia, scene e luci di Robert Wilson. Ora, per chi lo apprezza e conosce il suo lavoro, facilmente individuabile, immutato e sua sigla da decenni, si è trattato di uno degli spettacoli più belli visti negli ultimi anni. Per altri, compreso chi firma, che magari cercavano una connessione tra la musica e la drammaturgia dell’opera, è parsa l’ennesima conferma che l’imperatore è nudo. E così, pur nel comun tripudio, non sono mancati, alla fine, isolati “buh” di dissenso; altri hanno abbandonato la sala al primo ed unico intervallo. Ma anche ciò fa parte del gioco e quindi si può tranquillamente dire che per la direzione artistica è stato bel colpo andato a segno.
Andrea Merli