BOLOGNA: la Bohème, 19 gennaio 2018

BOLOGNA: la Bohème, 19 gennaio 2018

opera in quattro quadri

GIACOMO PUCCINI

su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica

Direttore Michele Mariotti
Regia Graham Vick

Personaggi e Interpreti:

Mimì Mariangela Sicilia, Alessandra Marianelli (20,23,25,28/01)
Musetta Hasmik Torosyan, Ruth Iniesta (20,23,25,28/01)
Rodolfo Francesco Demuro, Matteo Lippi (20,23,25,28/01)
Marcello Nicola Alaimo, Sergio Vitale (20,23,25,28/01)
Schaunard Andrea Vincenzo Bonsignore
Colline Evgeny Stavinsky
Benoit/Alcindoro Bruno Lazzaretti
Parpignol Guang Hu (Scuola dell’Opera)
Un venditore Coro

Orchestra, Coro, Coro di voci bianche e tecnici del Teatro Comunale

Scene e costumi Richard Hudson
Luci Giuseppe di Iorio
Assistente alla regia Lorenzo Nencini
Assistente alle scene Justin Arienti
Assistente ai costumi Elena Cicorella
Maestro del Coro di voci bianche Alhambra Superchi
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Nuova produzione del Teatro Comunale

Seguendo a caldo l’impiccionata in Barcaccia, RAI Radio 3 (a breve disponibile in podcast) qualche riflessione su La bohème che ha inaugurato con esito trionfale la stagione felsinea al Teatro Comunale lo scorso venerdì 19 gennaio.

Lode incondizionata, con punte di vero entusiasmo, all’ottimo versante musicale, reso doppiamente interessante da un giovane, ma ben preparato e maturo cast e, soprattutto, dalla lettura del Maestro stabile a Bologna, Michele Mariotti al suo primo, fortunatissimo, incontro con Puccini.

“Ho cercato di avvicinarmi allo spartito con la mente scevra dai mille ed uno esempi ampiamente documentati da un’imponente discografia e da tanti ascolti in teatro” ha confidato in camerino prima della recita “cercando di leggere, oltre le note, le intenzioni dell’Autore che stanno non solo nel rispetto delle dinamiche, ma anche nelle indicazioni praticamente registiche, dettate da un uomo di teatro come appunto era Puccini: per esempio l’indicazione alla “preghiera” di Musetta nel quarto quadro, che deve essere quasi mormorata, a fior di labbra, come una litania imparata a memoria. E così tantissimi altri punti, spesso trascurati da letture che badano all’effetto, al “puccinismo” che fa rima con “sentimentalismo”, più che a ciò che lo spartito richiede”.

Ne è risultata una lettura affascinante e coinvolgente – in ciò seguito da un’orchestra in stato di grazia che segue il gesto direttoriale con rispetto ed amore – per molti versi nuova nella sua estrema trasparenza e pulizia, dove non è mancato l’entusiasmo, anche goliardico, di alcune frasi – si pensi al secondo ed al quarto quadro – ma soffusa di una impalpabile e dolcissima malinconia nei momenti di maggior slancio lirico e di afflato amoroso. Un debutto, insomma, che lascia ben sperare anche in altre frequentazioni di titoli pucciniani.

Nel cast, davvero ben assortito, ha primeggiato Mariangela Sicilia, Mimì. Dotata di una voce dal timbro carezzevole e pieno, le è riuscita una caratterizzazione palpitante e vivida della sfortunata fioraia, cantando con slancio e precisione – per tutti il luminoso Do conclusivo nella fine del primo quadro – e fraseggiando con proprietà interpretativa da lasciare di stucco e fortemente sorpresi in considerazione della sua giovane età. Come si è detto in radio, ci si può attendere da lei un futuro roseo in un repertorio che ricalchi il “modello Freni”, che la graziosa ragazza ricorda molto da vicino.

Di Francesco De Muro, che affronta ovviamente in tono la fatidica “Gelida manina” e che ha tutto per essere un Rodolfo scenicamente perfetto, rimane la convinzione, però, che pur cantando assai bene, il suo repertorio d’elezione sia un altro e che il ruolo di Rodolfo non gli permetta di esibire in pieno le sue potenzialità, recentemente messe in bella mostra a Parigi quale Arturo ne I puritani. Non si tratta di un errore di percorso, tutt’altro, poiché il successo è stato franco e caloroso pure nei suoi confronti. Viceversa, Nicola Alaimo pare un po’ troppo in carne per essere un Marcello conteso dalle grisettes che affollano il quartiere latino; la voce, però, è davvero ideale e così pure il carattere. Morbida la figura quanto morbido, vellutato il canto: una gioia per le orecchie. Assai bene anche gli altri due bohèmiens: Schaunard intonato da Andrea Vincenzo Bonsignore, un baritono emergente che si segue con attenzione tra le nuove leve, e Colline affidato all’ottimo e prestante basso russo Evgeny Stavinsky.

Musetta ha trovato nella assai bella e civettuola Hasmik Torosyan, soprano armeno, tutta la verve e l’esprit richiesti. Il timbro non è particolarmente bello, ma la cantante è assai brava e nel suo valzer prende il Si acuto e lo gira, usando sia la dinamica del piano che del forte, a suo piacimento.

Bruno Lazzaretti, impegnato nelle due parte di Benoit e di Alcindoro, ricava due apprezzatissimi cammei, con caratterizzazioni assai diverse e con dominio della scena del canto. Molto bene sia il coro del Teatro Comunale, istruito da Andrea Faidutti che le voci bianche, sotto la guida di Alhambra Superchi.

Rimane lo spettacolo, che ai più è piaciuto tantissimo: Graham Vick, indiscusso uomo di teatro e regista di chiara fama, attualizza la storia ai tempi nostri. E ciò, da oltre quarant’anni non è più una novità: ultimo esempio della serie La bohème, da poco recensita, per la regia di Leo Muscato che porta l’azione ai tempi delle contestazioni del 1968. In questo caso siamo proprio nei tempi nostri e lo spettacolo, va detto, è assai ben articolato, tutti vi partecipano con visibile convinzione ed entusiasmo, rendendo al 200% la resa visiva. Il problema è che in Italia abbonda il “melomane medio” (termine recentemente coniato e che rischia di diventare “virale” non meno della proverbiale “casalinga di Voghera”) che conosce a memoria il testo e la musica, e dunque rimane – comprensibilmente – restio ad accettare che una ragazza drogata (nella fattispecie Mimì, e ci aveva già pensato Ken Russell a Macerata, protagonista Cecila Gasdia, oltre trent’anni fa) parli di cuffiette rosa, di libro di preghiere per far rima con portiere. All’estero, si sa, è prassi abituale ormai usare i sovratitoli cambiandoli per giustificare l’azione scenica, da noi non si può. Sarebbe magari oppurtuno intervenire sul testo (e perché no, anche sulla musica) ma allora a stracciarsi le vesti sarebbero proprio quelli che inneggiano alla “modernità” di queste regie che, ahinoi, nascono il più spesso delle volte già vecchie.

Qui si va oltre alla deconstetualizzazione, cercando delle giustificazioni che al pubblico non hanno perché arrivare: per esempio il fatto che i quattro ragazzotti siano, in realtà, dei figli di papà in fase di contestazione giovanile nel bel mezzo di un Erasmus a Parigi: ciò giustificherebbe il disprezzo di Rodolfo per Mimì quanto, dopo essersela portata a letto, scopre che è una tossico dipendente. Alla Barriera d’Enfer, periferia degradata, ci si reca per comprare una dose dal pusher, in mezzo a puttante, poliziotti corrotti, delinquenti che derubano passanti e, per non farci mancare nulla, una marchetta gay che si concede ad un cliente di un bar malfamato. La soffitta, sebbene nell’ultimo quadro sia in fase di sbaraccamento – ma rimane la cucina a gas, utile per sciogliere il “cordiale”, cioè l’ultima dose di droga per la morente Mimì – lunge dall’essere una tana squallida è, in realtà, un trilocale completamente arredato, TV e frigorifero compresi. Il dettaglio, nell’ultimo quadro, di Colline che si reca al cesso impugnando una rivista pornografica, riapparendo poi per chiedere a Rodolfo la carta igienica, si poteva anche risparmiare. Infine, il disprezzo che tutti, tolto forse Schaunard, dimostrano per la morente, abbandonandola una volta morta, sarà pure un’idea “originale” ma personalmente m’è sembrato uno sproposito.

Così le scene (ed i costumi ?!?) di Richard Hudson, ridotte al primo termine e praticamente in proscenio, volevano forse ricordare una sorta di strip, come quelle vignette che si leggono sui quotidiani. Pure le luci, crude e piatte di Giuseppe Di Iorio hanno sottolineato volutamente questa piattezza che alla fine è risultata limitante, in particolare nel quadro secondo culminato con la sfilata della banda in abito di Babbo Natale. Per concludere,  pur sapendo di essere impiccionescamente fuori dal coro, una Bohème da ascoltare più che da vedere… con buona pace di chi snobba il “melomane medio”.

Andrea Merli

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