Piacenza SIMON BOCCANEGRA – Giuseppe Verdi
Progetto OPERA LABORATORIO 2017
GIUSEPPE VERDI
SIMON BOCCANEGRA
Melodramma in un prologo e tre atti su libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito
dal dramma Simon Bocanegra di Antonio Garcia Gutiérrez
Direttore: Pier Giorgio MORANDI
Regia: Leo NUCCI
Personaggi e Interpreti:
- Simon Boccanegra: Kiril Manolov
- Maria Boccanegra: Clarissa Costanzo
- Jacopo Fiesco: Mattia Denti
- Gabriele Adorno: Ivan Defabiani
- Paolo Albiani: Ernesto Petti
- Pietro: Cristian Saitta
- Un’ancella: Paola Lo Curto
- Un Capitano dei Balestrieri: Jenish YsmanovSalvo PIRO, regista collaboratore
Carlo CENTOLAVIGNA, scene
Artemio CABASSI, costumi
Claudio SCHMID, luciORCHESTRA DELL’OPERA ITALIANA
CORO DEL TEATRO MUNICIPALE DI PIACENZA
Corrado CASATI, maestro del coro
FOTO GIANNI CRAVEDI
“Non mi considero un regista, ma molto più semplicemente un “metteur en scène” cioè uno che si limita, scusate se è poco, a rispettare il verbo dell’Autore, di Verdi”.
Questo lemma, ripetuto ad ogni occasione, rende merito a Leo Nucci, infaticabile ed inossidabile, che tra i mille ed un impegni, non ultimo quello di recarsi alla Scala per le prove del Nabucco prossimamente in scena nel teatro milanese – “Scusate, ma devo scappare: domani ho prova alle dieci del mattino!” si è giustificato durante la fugace apparizione al rinfresco nel foyer dopo lo spettacolo – trova il tempo per questa preziosa collaborazione formativa con il Teatro Muncipale di Piacenza, dove con questa ha firmato cinque produzioni.
Hanno di che essere fiere – che fossero soddisfatte e toccassero il cielo con un dito dopo l’esito trionfale della serata, era evidente – sia la nuova direttrice, Vittoria Avanzi, fresca di nomina che Cristina Ferrari, donna di teatro dove ve ne siano, direttore artistico dotato di… antenne per recepire quanto di meglio offre il mercato, con occhio ed orecchio sempre vigile sui giovani interpreti della scena lirica internazionale.
Il risultato di questo nuovo “Progetto Opera Laboratorio” non poteva essere più felice: Salvo Piro, indispensabile braccio destro alla regia, Carlo Centrolavigna, scenografo di vaglia ed Artemio Cabassi, che ne firma gli stupendi costumi con Claudio Schmidt, che cura le luci, hanno garantito una parte visiva di estrema efficacia, nell’alveo della migliore tradizione italiana, che si vorrebbe morta e sepolta e che invece risulta più “rivoluzionaria”, oltre che viva e vivace, di tanta fuffa spacciata per “modernità” e che ormai è rancida, vecchia già nel nascere. Un Simon Boccanegra dove c’è tutto, iniziando dalla chiara esposizione di una trama che nasce complicata ed assurda nello stile romanticamente gotico dello spagnolo Garcia Gutierrez, seppure semplificato dal Piave e poi migliorato da Boito con la trascinante scena del Gran Consiglio. Nucci, giustamente, insiste sulla “tinta”, che è sepolcrale e notturna, rischiarata però da squarci di luce lunare e resa con l’alito della brezza, per la continua presenza del mare protagonista dell’indiscutibile capolavoro. Il prologo ed i vari quadri si susseguono con rapidi cambi di scena simulati dal velario, la scansione teatrale essendo garantita anche dalla lettura incalzante e precisa, con grande attenzione al palcoscenico seguito alla perfezione nell’indicazione degli attacchi e tenuto sempre in riga con il necessario polso dal Maestro Pier Giorgio Morandi; gli risponde con impeto e con disciplina la valente Orchestra dell’Opera Italiana ed il non meno lodevole Coro del Teatro Muncipale diretto, come sempre e sempre con maestria, dal pur bravo Corrado Casati.
Nel cast note positive e alcune straordinarie sorprese, che sono poi quelle che impiccionescamente più mi esaltano. Iniziamo dall’ottima distribuzione delle parti minori: l’incisiva e puntuale Ancella di Amelia, intonata da Paola Lo Curto, l’Araldo, nonché Capitano dei balestrieri, del tenore del Kirghizistan Jenis Ysmanov, che si ricorda ottimo Duca nel Rigoletto a Como e che vanta una carriera importante: la sua presenza è da considerarsi, più che un lusso, quasi uno spreco per l’esiguità delle parti. Lusso asiatico anche disporre del bravo basso rumeno, ma ormai italiano di fatto, Cristian Saitta, nel ruolo tutt’altro che marginale di Pietro. Verdi insisteva per la presenza di un baritono di qualità nel ruolo di Paolo Albiani, risaputamente “prova generale” dello Jago a venire, in Otello. Ernesto Petti ha onorato l’impegno con la sua bella voce e con un’interpretazione di altissimo livello. Ottima pure la partecipazione del giovane soprano di Capua Clarissa Costanzo – alla sua età gli anni si possono dichiarare: 26! – Amelia/Maria di grande slancio lirico, musicalmente ineccepibile, seppure il timbro non sia particolarmente bello e nell’acuto spunti qualche stridore: ma è giovanissima ed il ruolo impervio, per tenuta e musicalità. Quindi il successo schietto se lo è abbondantemente meritato. La si seguirà con attenzione perchè, comunque, è un’interprete interessante. Il Basso Mattia Denti gioca in casa e ciò, anzichè garanzia di successo, può tramutarsi in una sfida per la maggior responsabilità. E’ stato accolto molto festosamente ed a ragione. Finalmente approdato ad un ruolo – e che ruolo! – di grande peso, sia scenico che vocale, è parso all’altezza del compito tanto nella dolente ed accorata esposizione del “Lacerato spirto” quanto e, soprattutto, nel duetto e scena finale col Doge morente. L’applauso a scena aperta dopo l’aria del prologo non si è ripetuto alla fine della confessione di Boccanegra, nel punto in cui Fiesco è preso dal pianto, per la semplice ragione che tutti in sala, dove non si sentiva volare una mosca, eravamo commossi.
E si arriva alle “sorprese dell’impiccione”. Inizando da Ivan Defabiani, che mi vanto di seguire dall’inizio della promettente carriera. E cioè da un concerto, che sembra ormai lontano nel tempo ma è di due anni fa, per l’Associazione Parma Lirica. Questo ragazzo, che tale posso e devo considerare l’appena trentenne tenore piemontese, ha raggiunto in breve uno sviluppo tecnico e formativo davvero impressionante. Se il suo Alfredo in una Traviata a Jesi, dove era per giunta febbricitante per l’influenza, mi era già piaciuto e parecchio, se il Pinkerton dello scorso anno al Teatro Coccia di Novara mi aveva confermato le innegabili, ma ancora da imbrigliare, potenzialità, ora mi ha lasciato molto favorevolmente colpito. Ha seguito una disciplinea ferrea, grazie a preziosi consigli pervenuti anche durante il lavoro nel “Laboratorio” piacentino, che ora gli garantisce il dominio della voce, e lo strumento è importantissimo, in piani e pianissimi, sempre con il necessario appoggio, mantenendo e sviluppando l’ascesa all’acuto, ricco di armonici e dotato di pregevolissimo squillo. Anche scenicamente, pur con un margine di potenziale miglioramento, mi è parso progredire: maturato e più cosciente della postura scenica. Infine, ha cantato con la sua voce bella, maschia e all’italiana, con generosità e partecipazione totale. Tutto ciò gli ha garantito l’applauso prolungato dopo l’aria del secondo atto e un’accoglienza alla ribalta a dir poco trionfale.
Ma il vero “atto di dolore”- si fa per dire – lo devo recitare nei confronti del baritono bulgaro Kiril Manolov, che avevo ascoltato in una delle mie spedizioni al Teatro Perez Galdos di Las Palmas di Gran Canaria. Io, che solitamente passo per “buonista”, fui piuttosto severo nel giudicare una voce enorme, sì, ma emessa a casaccio ed un interprete che mi era parso assai rozzo. E ieri sera, veramente, non riuscivo a credere a quanto stavo ascoltando: voce emessa con gran classe, uso di mezze voci e canto in pianissimo, ma con una ricchezza di armonici da riempire tutta la sala, interprete accorato, nobile e credibile nonostante il fisico gigantesco e la figura, che a definire monumentale si pecca per difetto. I “moderni” registi arriccino pure il naso – fosse poi l’unico colosso in libera circolazione: e penso agli amici, pur bravissimi, Ivan Inverardi ed Ambrogio Maestri – spero solo che ciò non comporti un ostacolo ad una carriera che a questo punto, compiuti i quarant’anni, non può più attendere in considerazione della “fame” di voci autenticamente baritonali che abbiamo, in Italia e nel mondo. Il suo “Figlia”, emesso su un fiato interminabile a voce sussurrata alla fine del duetto, la perorazione “E vo gridando pace e vo gridando amor” cantata senza una forzatura, rimarranno impressi nella memoria. La “lezione Nucci”, indubbiamente, ha avuto la sua importanza e l’abbraccio che il veterano Simone ha dato spontaneamente durante gli applausi al giovane protagonista è sembrato una sorta di passaggio del testimone, anche se del buon Leo non se ne intravede il tramonto.
E dunque le emozioni sono state tante, e la serata si è conclusa con un senso di appagamento e leggerezza che ripagano e ci risanano dalle mille ed una tribolazioni quotidiane, come dovrebbe sempre essere in teatro: emozione, commozione e gioia. Vi sono riconoscente caro Leo e cara Cristina Ferrari: grazie di esistere.
Andrea Merli