TAMERLANO – Georg Friederich Haendel  Teatro alla Scala, 19 settembre 2017

TAMERLANO – Georg Friederich Haendel Teatro alla Scala, 19 settembre 2017

TAMERLANO

Opera in tre atti

Libretto di Nicola F. Haym da Agostino Piovene

Musica di

GEORG FRIEDRICH HÄNDEL

Nuova produzione Teatro alla Scala

 

 

Direttore DIEGO FASOLIS

Regia DAVIDE LIVERMORE

 

 

Personaggi e interpreti:

  • Tamerlano: Bejun Mehta
  • BajazetPlácido Domingo – Kresimir Spicer
  • AndronicoFranco Fagioli
  • Irene: Marianne Crebassa
  • Asteria: Maria Grazia Schiavo
  • Leone: Christian Senn

Scene DAVIDE LIVERMORE e GIÒ FORMA

Costumi MARIANA FRACASSO

Video VIDEOMAKERS d-WOK

Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici


Milano

TAMERLANO – Georg Friederich Haendel

Teatro alla Scala, 19.09.17.

Diego Fasolis, direttore d’orchestra a capo dei suoi “Barocchisti” importati dalla Svizzera affiancati da parte dell’orchestra scaligera impegnata con “strumenti storici”, nelle note del programma di sala, oltre a tessere comprensibilmente lodi agli interpreti, illustra la genesi di questa edizione, concepita con criteri filologici assieme al regista del nuovo spettacolo, Davide Livermore.

Del capolavoro di Haendel, il cui originale è del 1724, se ne offre una rivisitazione che, lunge dall’essere “un abuso” (sic) risponde al rispetto di storiche prassi esecutive. Sugli originali d’epoca si trova un impressionante lavorio di “taglia e cuci”: pagine strappate o ripiegate, incolate, ripensamenti, sostituzioni, cambi di registro vocali al cambio degli interpreti, rimaneggiamento dei testi. Tutto al servizio che vade negli Attori (così indicati nell’originale) i protagonisti assoluti, con tutti gli altri al loro servizio.

E’ stato chiaro a tutti che se questo magnifico spettacolo, reso al massimo sia musicalmente che scenicamente, grazie al quale è il Tamerlano di Haendel è approdato alla Scala – i due precedenti milanesi, ma al Regio Ducal Teatro e su libretto di Agostino Piovene adattato poi da Nicola Francesco Haym per Haendel, nel 1746 con musica di Giovanni Battista Lampugnani e nel dicembre del 1771con quella del bohemo Josef Myslivecek – lo si deve alla presenza di Placido Domingo, interprete del ruolo di Bajazet imperatore dei Turchi prigioniero di Tamerlano, imperatore dei Tartari.

Cosa umana non sono” la frase di Turandot ben si adatta per definire la resistenza, vocale e fisica, di questo autentico “Superman” dell’opera sottopostosi ad un autentico tour de force tra prove, prova “generale” e “prima” inframmezzata con due concerti di Zarzuela, in qualità di direttore d’orchestra, alla seconda recita, cui si riferisce questa cronaca. Recita finita passata la mezzanotte. Giusto il tempo di uscire dal teatro e correre all’aereoporto per un volo notturno destino Madrid, dove l‘attendeva alle nove del mattino del giorno appresso un servizio fotografico e quindi ritorno a Milano.

Aneddotica a parte, il suo personaggio possiede, se non l’assoluta padronanza stilistica – che poi come s’è scritto sopra, si richiede l’Attore – il carisma ineguagliabile del massimo interprete. Quando Domingo è in scena inevitabilmente gli altri entrano in un fascio d’ombra. La voce poi, ritornato al registro tenorile, in verità senza averlo mai abbandonato – egli ha sempre sostenuto di interpretare i ruoli baritonali con la “sua voce” – stupiscono la fermezza della linea di canto, la musicalità e la proiezione del suono. Se alla “prima” la memoria gli ha giocato qualche scherzo, alla seconda recita le omissioni sono state trascurabili. Domingo è parso semplicemnete monumentale nella lunga scena della morte. Poi, durante gli applausi davanti al sipario, ha stretto riconoscente la mano al Maestro suggeritore. Anche questo un gesto da grande!

Meriti e lodi da attribuire alla non meno che eccezionale lettura di Diego Fasolis, specialista tra gli specialisti, la cui affinità con questo genere teatrale è congenita. Pulizia di suoni, trasparenza, ma anche vigore e sostegno ideale del canto; seguito in ciò meravigliosamente dalla compagine orchestrale.

Se il canto dei castrati rimane una chimera pari all’araba Fenice, di certo ad illuderci con assoluta verosomiglianza di possederne il segreto, le qualità eccelse e stupefacenti, ci sono riusciti con tanto Bejun Metha, Tamerlano, quanto Franco Fagioli, Andronico. Il primo con un timbro più chiaro, che risulta di una naturalezza sorprendente, il secondo con un colore più ambrato nella voce, dotata di un’estensione notevolissima, che ricorda per corposità e morbidezza quella della Berganza. E con ciò si è detto tutto. Entrambi vorticosi nelle agilità e scenicamente assolutamente credibili, il primo nel rendere l’incostante bizzarria e la spietata volubilità del tiranno, il secondo diviso tra sentimenti d’amore per la donna amata ed il senso di lealtà verso il pur crudele Tamerlano.

Bravissime le due donne: Maria Grazia Schiavo, Asteria, che tra l’altro affronta la parte più gravosa, è parsa particolarmente idonea, per voce e temperamento, nel ruolo della principessa obbediente al padre Bajazet e divisa tra gelosia e rabbia dall’amato Andronico. A lei spetta la scena finale, che poi è la vera conclusione dell’opera prima dell’obbligato “lieto fine” pacificatore che ricompone le coppie. Marianne Crebassa, che aveva parzialmente deluso nei panni di Cherubino nelle recenti Nozze di Figaro per fortuna già dimenticate, è stata pure bravissima nel ruolo di Irene, la principessa di Trabisonda rifiutata inizialmente da Tamerlano, risolta con assoluta disinvoltura vocale e scenica, ricavandone un personaggio dai tratti anche ironici. Ottima la resa del baritono Christian Senn nella parte di Leone, confidente di Andronico.

Resta da dire dello spettacolo, davvero impressionante, firmato da Davide Livermore anche per le scene, in coppia con Giò Forma, che si avvale anche degli splendidi costumi, elegantisisme le due donne in abiti di gran sera, di Marianna Fracasso, delle luci di Antonio Castro e delle proiezioni video di Videomarkers D-Work. Forte di una figurazione eccezionale per bravura degli attori mimi e di un lavoro meticoloso, quanto ben centrato della recitazione del singolo, Livermore celebra idealmente I cento anni della rivoluzione bolscevica, trasformando Tamerlano in Stalin, Andronico in Lenin (o, meglio, in Trozky) mentre Bajazet dovrebbe essere lo Zar. Ma l’ambientazione perde subito la connotazione storica e si presta alla drammaturgia originale favorita dalle scene, davvero imponenti ed originali, specie quella del treno che simula il movimento nella foresta innevata. Un colpo di teatro di grande effetto, sì, ma centrato e funzionale alla comprensione del dramma. Finalmente uno spettacolo che unisce innovazione senza cadere nell’autocelebrazione narcisistica. Una dei più belli visti negli ultimi tempi e non solo in Scala. Gliene si è grati.

Andrea Merli

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