BOLOGNA: Lucia di Lammermoor – 18 giugno 2017

BOLOGNA: Lucia di Lammermoor – 18 giugno 2017

opera in tre atti di Gaetano Donizetti

su libretto di Salvadore Cammarano

tratto da The Bride of Lammermoor

Direttore: Michele Mariotti

Regia: Lorenzo Mariani

Personaggi e Interpreti:

  • Lord Enrico Ashton: Markus Werba (16, 18, 20, 22/6)
    Simone Alberghini (17, 21, 23, 25/6
  • Lucia: Irina Lungu (16, 18, 20, 22/6)
    Ruth Iniesta (17, 21, 23, 25/6)
  • Sir Edgardo di Ravenswood: Stefan Pop (16, 18, 20, 22/6)
    Ho Yoon Chung (17, 21, 23, 25/6)
  • Lord Arturo Bucklaw: Alessandro Luciano
  • Raimondo Bidebend: Evgeny Stavinsky
  • Alisa: Elena Traversi
  • Normanno: Gianluca Floris

Orchestra e coro del TCBO

Scene: Maurizio Balò
Costumi: Silvia Aymonino
Luci: Linus Fellbom
Videomaker: Fabio Massimo Iaquone, Luca Attilii
Assistente alla regia: Hannah Gelesz
Assistente alle scene: Andrea De Micheli
Assistente ai costumi: Vera Pierantoni Giua
Maestro del Coro: Andrea Faidutti


Il nuovo allestimento di Lucia di Lammermoor prodotto dal Teatro Comunale di Bologna, in coproduzione col Teatro Carlo Felice di Genova, la associazione ABAO di Bilbao e il Teatro Nazionale Slovacco, è stata affidata alla regia di Lorenzo Mariani, con scene di Maurizio Balò, costumi firmati da Silvia Aymonino e luci curate da Linus Fellbom, mentre le video proiezioni si debbono congiuntamente a Fabio Massimo Iaquone e Luca Attili.

Si tratta dell’ennesima trasposizione temporale agli anni trenta dello scorso secolo: la precedente edizione al Comunale di Bologna, di cui si è provvidenzialmente scordata la firma, era pure “moderna”, cioè spoglia, ma con gli immancabili “cappottoni”. Come dire che eseguire Lucia come Cammarano e prima di lui Scott ci hanno consegnato, risulta ormai utopico e a tale moda debba rassegnarsi definitivamente il pubblico, non solo quello accorso domenica al teatro felsineo. Domenica, in assenza dei fautori dello spettacolo, “la nuttata” è passata indenne; viceversa alla “prima” sono stati sommersi da bordate di fischi e “buh”.
Molto rumore per nulla, in definitiva. L’azione scorre sul binario della più addomesticata routine e si rivela del tutto innocua e dunque inutile nella pretesa provocazione, escludendo due o tre “trovatine” registiche che più che incutere orrore muovono al riso: Enrico durante la cabaletta indossa guanti da macellaio e sgozza un enorme alce, con la cui cornuta testa poi si pavoneggia davanti all’allibito coro; il medesimo tenta di violentare la sorella – oh novità! – alla fine del duettone del secondo atto; la protagonista si suicida impiccandosi, rimanendo a penzoloni per tutto il lungo cantabile “Tu che a Dio volgesti l’ali”. E’ pur vero che Raimondo anticipa la frase: “Ella in terra più non è”, ma non sembra il caso di prenderlo alla lettera!

La scena, in sé semplice ed efficace trattandosi di grandi finestroni sghembi, è animata eufemisticamente dalle retroproiezioni, filmati in bianco e nero che rappresentano un bosco per quasi tutta la durata dell’opera, ma anche il mare in tempesta. I costumi, in grigia sintonia, non stonano: i maschietti col gonnellino kilt di rigore in Scozia, vestono l’impermeabile trench per andare a caccia; magari alla protagonista si poteva risparmiare il vestitino da collegiale che la fa molto Bette Davis in “Che fine ha fatto Baby Jane?”, mantenuto pure per le nozze, là dove il coro sfoggia abiti e gioielli da gran gala. Insomma, spettacolo da “buhare” forse no, ma certo una messa in scena che ci si poteva risparmiare, che nasce vecchia, datata.
Meglio e molto le cose sul piano squisitamente musicale. Iniziando dagli ultimi: il solido Normanno musicalmente preciso di Gianluca Floris, l’adeguato e nobile Arturo assai ben cantato da Alessandro Luciano, l’Alisa mezzosopranile di Elena Traversi a cui molto opportunamente sono state evitate le puntature acute durante il concertato che chiude il secondo atto.
Una lieta sorpresa il Raimondo Bidebent interpretato dal basso Evgeny Stavinsky, conciato da Sherlock Holmes più che da prete o pastore protestante, ché poi dovrebbe essere: la frase “Rispettate in me di Dio la tremenda autorità” non si è capito a che pro la pronunciasse. Voce morbida, ben emessa e di bella consistenza in zona grave: la riapertura (ormai consueta) dell’aria “Deh, t’arrendi, non più sciagure” gli è valsa una meritata ovazione.
E’ piaciuto molto l’Enrico Ashton interpretato da Markus Werba, baritono brillante e Papageno di riferimento come tutti sanno, ma che ha pure la sensibilità e l’intelligenza di non forzare o scurire artificiosamente il suo bel timbro chiaro, a tratti tenorile. Ne scaturisce un personaggio giovanile, come ha da essere, vigoroso e baldanzoso e, ciò che conta cantato a dovere. Ottimo nell’aria e cabaletta in cui è costretto alla scena assurda di cui sopra, saltando su e giù da un tavolo, apprezzabile nel duetto con Lucia, dove armato di pistola cerca di violentare la sorella, ma viene tempestivamente trattenuto dal salvifico Normanno; infine più rilassato nel temibile duetto della Torre col tenore che apre il terzo atto.
Tenori ne erano previsti due, uno spagnolo e l’altro rumeno: Celso Albelo, rimasto in Spagna all’isola di Minorca impegnato in un’altra Lucia, ha ceduto le recite a Stefan Pop, che si conferma elemento di spicco nel mondo non troppo frequentato del puro Bel Canto, e non solo: non dimentichiamo certo la recente Bohéme a Parma ed il suo non meno che sensazionale Rodolfo. Qui, però, al debutto di ruolo, dimostra che la sua carta vincente per ora, in attesa di affrontare ruoli più “spinti” (penso al Riccardo del Ballo verdiano, per esempio) si gioca con la liricità donizettiana, dove può espandere il suo bel timbro solare, “all’italiana” con cantabilità affascinante e coinvolgente, per la bellezza e precisione dell’acuto, per l’uso accurato del legato e delle mezze voci che tali sono e mai sbiancati falsetti. Questa prima lettura, di per sé già notevole, fa preludere ad altri ruoli sia di Donizetti che di Bellini, di cui non a caso deve riprendere in prossime recite il Pollione della Norma a fianco di Mariella Devia. Bravo, bravissimo e da seguire con attenzione.
Brava bravissima pure Irina Lungu, che si può a tutti gli effetti considerare italiana d’adozione, senza necessità di invocare lo ius soli, per carriera e per formazione. Seppur non in perfette condizioni di salute (non si è fatta “annunciare”, come si dice in gergo teatrale, ma è stata costretta a rinunciare alla recita successiva per l’acuirsi del raffreddore) ha cantato ed interpretato benissimo. Voce preziosa pure la sua, facile all’acuto (è stata la festa dei Re sovracuti e del Mi bemolle!) con un corpo più che sufficiente in zona grave, è una Lucia completissima anche nel canto di agilità, esibito in una “pazzia” da manuale che ha fatto letteralmente venir giù il teatro. Eseguire, poi, l’opera senza tagli non offre certo sconti alla protagonista. E pensare che questo ruolo lo ha affrontato una sola volta a Verona. Fa bene la bella Irina ad insistere ritornando, tra un Verdi e l’altro, a Donizetti e Bellini, come ha dimostrato pure nella recente edizione dei Puritani nel circuito emiliano.
Rimane da dire del debutto di Michele Mariotti nel complesso titolo donizettiano: l’avvio, a dire il vero, con qualche sbandamento in orchestra (i “soliti” corni) non è stato felicissimo, ma presa in pugno la situazione ha proseguito con un impeto ammirevole, un senso del teatro infallibile, curando molti dettagli orchestrali, in un’opera che ha molti strumenti “obbligati”, che spesso passano in silenzio. Una direzione apprezzatissima dal pubblico, suscettibile nel corso delle recite di ulteriori messe a fuoco specie nelle dinamiche che, a tratti, hanno coperto un po’ alcuni cantanti. Bene l’orchestra, ottimo il flautista Denis Mariotti che ha accompagnato la lunga cadenza del soprano e che ha avuto giustamente l’onore del palcoscenico a fine recita, e bene pure il coro ben istruito da Andrea Faidutti.
Teatro al completo e pubblico festante e felice, come dovrebbe essere sempre.

Andrea Merli

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