Genova – Piacenza ROBERTO DEVEREUX – Gaetano Donizetti, MACBETH – Giuseppe Verdi DUE MOSTRI
Roberto Devereux
Tragedia lirica in tre atti
Libretto di Salvadore Cammarano
Musica di Gaetano Donizetti
Direttore: Francesco Lanzillotta
Regia: Alfonso Antoniozzi
Personaggi e Interpreti:
- Regina Elisabetta: Mariella Devia
- Sara: Sonia Ganassi
- Roberto Devereux: Stefan Pop
- Il Duca di Nottingham: Marco Di Felice
- Lord Cecil: Alessandro Fantoni
- Sir Gualtiero Raleigh: Claudio Ottino
- Un paggio: Matteo Armanino
- Un familiare di Nottingham: Loris Purpura
Scene: Monica Manganelli
Costumi: Gianluca Falaschi
Luci: Luciano Novelli
Assistente alla regia: Sergio Paladino
Assistente ai costumi: Gian Maria Sposito
Orchestra Teatro Carlo Felice
Coro Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro: Pablo Assante
Mimi: DEOS Luca Alberti, Luisa Baldinetti, Filippo Bandiera, Nicola Marrapodi, Erika Melli
A distanza di meno di 24 ore ed a pochi chilometri una città dall’altra, anche se i percorsi impiccioneschi hanno imposto il rientro in sede ed una giornata di lavoro nel bel mezzo, due autentici “mostri” si sono esibiti provocando in entrambi i casi reazioni trionfali al limite del parossismo.
Ampiamente giustificate, s’intende.
Di Mariella Devia, che affronta per la prima volta in scena il ruolo di Elisabetta I nel donizettiano Roberto Devereux (ribattezzato “Deverello” in ironico ed affettuoso omaggio alla rima melodrammatica) dopo averlo debuttato in Francia ed a Firenze, la scorsa stagione, ma in forma concertante, c’è ben poco da aggiungere. Da dire, anzi scrivere, invece ce ne sarebbe un’intera Treccani, non foss’altro per la tecnica vocale, superiore ed inarrivabile, che permette alla Signora di fare con la voce quello che vuole, ovviamente nella totale aderenza allo stile, nel rispetto magistrale della musica e con un gusto altrettanto ammirevole quanto è ormai imponente il versante squisitamente interpretativo. Quindi risparmierò al paziente lettore la lista interminabile di superlativi, esauriti da tempo e ripetuti a iosa da tutti coloro che intendono cosa sia il vero, inequivocabile Belcanto.
Nondimeno rimane “mostruosa” la vocalità, alla soglia dei primi 68 anni laddove e quando altre non riescono a raccogliere nemmeno i brandelli della voce. Ha del prodigioso la capacità di smorzare, rinforzare a piacimento il suono, abbellire e variare i dacapo, offrendone così una valenza drammaturgica teatralmente urgente, la luce che ancora e sempre diffonde in acuto, là dove la voce si libera in luminosi raggi che paiono scendere direttamente dall’empireo. Sebbene atteso da tutti, il Re naturale che ha chiuso il rondò concertante finale è parso “innaturale” – questa l’ho rubata – per la tenuta, la proiezione sul “tutti” e sul pieno d’orchestra. Impossibile non saltare dalla poltrona, specie l’impiccione che, come un falchetto, si era precipitato in un posto rimasto libero in prima fila centrale e che da quel canto si è sentito redento e miracolato.
Non a caso lo spettacolo è stato firmato da Alfonso Antoniozzi, baritono prestato alla regia. “L’unico cantante che non ne fa rimpiangere il passaggio” ha detto Giovanni Chiodi dai microfoni di Radio popolare. Approvo in parte, poiché come cantante attore lo trovo per molti versi insuperabile e perché ce n’è almeno un altro che spesso azzecca le regie, e le azzecca assai bene, pur avendo un passato recente di tenore, categoria risaputamente a rischio! E qui mi riferisco, tanto per rimanere tra gli amici, a Davide Livermore, ma la lista potrebbe continuare. Di certo nel Devereux, come precedentemente nella Traviata bolognese, Antoniozzi da Mariella riesce a cavare il meglio come interprete. Perché la Signora, giustamente, deve essere convinta e motivata: lo si è capito, per esempio, nella straordinaria interpretazione di Violetta Valery all’Arena di Verona in una ormai lontana, e molto discussa ai tempi, regia di Vick. In questo caso l’uovo di Colombo, che poi le cose più semplici sono lì davanti a tutti e non è necessario stravolgere la storia o far sedere Elisabetta sul bidet, come ha dichiarato in un’intervista TV l’Antoniozzi, è stato esaltare l’aspetto iconografico del personaggio, prima, salvo poi metterne da subito in risalto il lato umano, forzatamente represso. Quello della donna che in tarda età riflette sulla vacuità del potere, pur sempre in mano al consiglio dei Lord, e sulla propria natura femminile resa sterile dall’assenza di affetti sinceri. Un ultimo guizzo di nemmeno poi tanto velato carnale languore, l’illusione di un amore impossibile ed, alla fine, distrutta anche fisicamente, la rinuncia a tutto, pure al trono.
Tutto ciò sfruttando con sagacia un gruppo di bravissimi mimi, che contornano, vestono e sostengono Elisabetta, mossi in un impianto scenico che verrà buono pure per gli altri due titoli a seguire della Trilogia Tudor (che poi ci sarebbe pure un’Elisabetta al castello di Kenilworth, che si vide a Bergamo parecchi anni fa e, guarda caso, con la Devia nel cast) e cioè Maria Stuarda, di cui sarà protagonista ancora la “nostra” e Anna Bolena a cui per motivi insindacabili rinuncia e di cui si annuncia il nome di un altro soprano che seguo con grande interesse: la canarina Yolanda Auyanet e speriamo che i pronostici si compiano. Il gioco del teatro nel teatro, con il coro che funge da attivo spettatore, è esaltato dalle scene ben realizzate da Monica Manganelli ricreando il Globe shakespaeriano, la quale senza perdersi in fronzoli ha costruito delle quinte goticheggianti molto funzionali e ha gestito, in mancanza di fondi, con grande disinvoltura, efficienza ed eleganza le impalcature su cui disporre il coro. Scalinate provenienti da un Fidelio e già –malamente – usate in una Vedova, già dimenticata ed assolutamente di passaggio. Utileria ed attrezzo quanto basta, come nelle migliori ricette; ben dosate le luci da Luciano Novelli, cui si debbono effetti invero suggestivi e, ciliegina sulla torta, gli spettacolari costumi di Gianluca Falaschi, autentiche sculture di una ricchezza e sfarzo, oltre che inappuntabilmente legati al periodo storico. Insomma una gioia per gli occhi oltre che per l’udito.
A questo ha contribuito un cast molto ben amalgamato e scelto con cura. Iniziando dalla intensa e anche commovente Sara cantata da Sonia Ganassi, pure lei esibendo stile e gusto nel canto, oltre che la bella estensione ed una sua peculiare morbidezza suadente nella voce. La rivelazione, per chi non se lo ricordasse già assai bravo alla Scala vincitore del concorso Operalia, il tenore rumeno Stefan Pop, nel ruolo del titolo. Voce salda, squillante e di bel timbro maschio, colori e gusto nel fraseggio: ci si aspetta, e lo si aspetta, in altre belle prove. Marco Di Felice ha dato vita ad un Nottingham prima affettuoso amico e protettore di Roberto e preoccupato dello stato depressivo della moglie, indi furente, geloso e deluso per il supposto doppio tradimento. La figura richiama in mente il verdiano Renato de Un ballo in maschera, ma il libretto non gli riserva un “Eri tu”, anzi i toni si fanno decisamente trucibaldi. In tal senso la prova di Di Felice è parsa… felice, incline al canto spianato e stentoreo, con una proiezione che da sola riempiva la vasta sala.
I ruoli di fianco hanno in quest’opera una rilevanza musicale poco significante, cantando più che altro recitativi, dove però bisogna essere puntuali ed incisivi, e nei concertati spesso in linea col coro, questo assai ben istruito da Pablo Assante. Li citiamo: Alessandro Fantoni, Cecil, Claudio Ottino, ottimo Raleigh, Matteo Armanino, un paggio e Loris Purpura, familiare di Notthingham: il servo per dirla breve.
Bene l’orchestra affidata alla bacchetta di Francesco Lanzillotta, giovane direttore attivo specie all’estero e che ho avuto modo di seguire a più riprese. Qualche sfilacciatura negli attacchi, sicuramente rammendata in corso di repliche, non ha compromesso un risultato finale ammirevole e garantito, comunque, il solido sostegno dei solisti. Del resto questo repertorio rappresenta il trionfo delle voci e ciò abbiamo avuto.
MACBETH
Giuseppe Verdi
Melodramma in quattro atti
Libretto di Francesco Maria Piave
Da Macbeth di William Shakespeare
Direttore: Francesco Ivan Ciampa
Regia: Riccardo Canessa
Personaggi e Interpreti:
- Macbeth: Leo Nucci
- Banco: Carlo Colombara
- Lady Macbeth: Susanna Branchini, Anna Pirozzi (20/03)
- Dama: Federica Gatta
- Macduff: Ivan Defabiani
- Malcolm: Marco Ciaponi
- Medico/Domestico: Mariano Buccino
- Sicario/Araldo: Juliusz Loranzi
Scene: Alfredo Troisi
Costumi: Artemio Cabassi
Luci: Michele Cremona
Performer: Silvia Rastelli
ORCHESTRA REGIONALE DELL’EMILIA ROMAGNA
CORO DEL TEATRO MUNICIPALE DI PIACENZA
Maestro del coro: Corrado Casati
Produzione Fondazione Teatri di Piacenza
NUOVO ALLESTIMENTO
Macbeth… Leo Nucci, non nego un certo imbarazzo a parlare di lui che per me è una sorta di “fratellone” di pochi anni maggiore. Con dire che lo ascoltai la prima volta nel 1968, dico tutto.
Ora con il Teatro Municipale di Piacenza e grazie alla bella realtà condotta brillantemente da due donne, non mi stancherò mai di menzionarle: Angela Longieri, Direttore e Cristina Ferrari, Direttore Artistico, Nucci ha un bel rapporto e direttamente come cantante e come regista e istruttore di giovani talenti: un’intelligente realizzazione della Luisa Miller, un delizioso Elisir d’amore ed il recente Amico Fritz lo stanno a testimoniare.
Qui, piuttosto, celebriamo un altro prodigio di longevità vocale e di aderenza artistico-interpretativa: prossimo ai 74 anni – a giorni, ai primi di aprile – il Leo “nazionale” non conosce il Sunset boulevard e anzi ripercorre con la sua amata (oltre ai motori, ai cavalli) il viale di un eterna primavera, vocale e fisica.
Macbeth per lui, che ne è estato interprete pure di un bellissimo film, non ha segreti. Impiccionescamente piazzato in palco di proscenio (ne giova, ovviamente, anche l’impiccionata) me lo sono goduto, che dico, centellinato minuto per minuto, secondo per secondo, nota per nota, gesto per gesto. Aitante e prestante con un trucco sapiente – ed una barbetta incolta di una settimana che fa tanto bel tenebroso alla Kaufmann, per intenderci – dà la sensazione di vedere un baldanzoso trentenne in scena: la voce, del resto è quella. La sera del 18, per giunta, in forma più che mai strepitosa: e sì che, ci ha poi confessato in camerino, di Lady nel corso delle prove ne ha cambiate fin tre. Ehh, quel diavolo d’un Macbeth!
Titubante, incredulo alle prime annunciazioni delle streghe, ancora “imbelle” di fronte all’ardire imperioso e determinato della moglie, quindi allucinato nella scena del brindisi. Poi imperioso al secondo incontro nella grotta davanti alla caldaia, infine sgomento in un “Pietà, rispetto, amore” da brivido e magistralmente cantato, sollevando un delirio di applausi e richieste di bis, ovviamente non esaudite – “si bissa tutt’al più la Vendetta del Rigoletto, nel Macbeth mai!” ci ha confermato a fine spettacolo – anche perché inserisce il finale del 1847, “Mal per me che m’affidai”, il ché mi pare una scelta drammaturgicamente sagace e che gli permette, a lui che può, piazzare anche un Sol acuto sostenuto. Insomma, un’altra “lezione magistrale” che il pubblico, arrivato un po’ da tutte le parti – il teatro registrava il tutto esaurito per entrambe le recite – ha apprezzato decretando un successo trionfale.
Lady di tutto rispetto il soprano Susanna Branchini, seppure appena ripresa da uno stato influenzale che ne ha messo in dubbio la partecipazione fino alla fine – presente in sala Stefanna Kybalova che ha cantato la parte alla “generale” – è parsa in forma ottima. Interprete credibile, anche per la bella presenza scenica, fraseggiatrice scaltrita, ha lavorato con l’accento dando al ruolo la necessaria perfidia e crudeltà, tanto nella compromettente e difficile scena di entrata, coronata dalla cabaletta eseguita con dacapo, quanto nel temibile “La luce langue” e quindi ferigna nel Brindisi e spettacolare nella scena del sonnambulismo, coronata dal Re sopracuto smorzato e tenuto a lungo: trionfo meritato pure per lei.
Un autentico lusso Carlo Colombara quale Banco. Il basso bolognese dal timbro inconfondibile, scuro e vellutato nel contempo, ha dato vita ad un degno alter ego di Macbeth nel duetto iniziale coronando la recita con un’esecuzione da manuale dell’aria “Come dal ciel precipita”. Ottime le rese dei due tenori: Ivan Defabiani, dal materiale interessantissimo messo ben in luce nell’aria di Macduff “Ah la paterna mano” e Marco Ciaponi, squillante Malcolm. Una lode speciale alla Dama interpretata dal soprano Federica Gatta, apprezzata per i Do sovracuti richiesti nei concertati e per una espressiva interpretazione, quasi sussurrata, nella scena del sonnambulismo. Bene pure Mariano Buccino, nel doppio ruolo di Medico e domestico, Juliusz Loranzi, sicario, Araldo e prima apparizione e le due voci bianche, le ragazze Anna Perotti e Gloria Campioni, rispettivamente seconda e terza apparizione.
Benissimo il coro, istruito da Corrado Casati e assi bene pure l’orchestra regionale dell’Emilia Romagna ubbidiente alla precisa ed ispirata bacchetta di Francesco Ivan Ciampa, un Maestro in crescita e che stupisce ogni volta per l’affidabilità e ispirazione delle sue letture musicali.
Lo spettacolo si è avvalso delle scene di Alfredo Troisi, che ha creato con poco molto e cioè una parete dominata da un simbolo celtico in rilievo che, a momenti, si spezza per dar passaggio ai protagonisti ed al coro, e pochi altri elementi (scheletro di albero, corona sospesa) che hanno permesso a Ricardo Canessa di svolgere una regia apprezzabile per la consequenzialità del succedersi delle scene e per l’estrema e didascalica lettura del libretto, laddove pure chi si avvicinasse per la prima volta all’opera ha potuto seguire facilmente la trama ed il percorso drammatico. Shakspearianamente ha animato il coro delle streghe con tre bravissime fanciulle che ne hanno concentrato l’azione e che son venute utili pure nel suggestivo finale, quando a Macbeth sottraggono la corona e ne assistono alla morte. Molto riuscita la scena delle apparizioni, praticamente sorgenti dalla caldaia. Il grande merito di Canessa, infine, è quello di interpretare l’opera conoscendone e leggendone la musica – è un ex cantante lirico, anche se lui con modestia dice che ha fatto “cabaret”! – cosa che oggi non si può dare per scontata né frequente.
A impreziosire lo spettacolo le luci ben dosate di Michele Cremona e, soprattutto, i costumi di Artemio Cabassi che ha ricreato idealmente un mondo barbarico e pure rustico, con dettagli precisi nella scelta delle stoffe e negli accostamenti cromatici.
Uno spettacolo che, ci hanno confessato quasi con pudore, è costato 10.000 euro in tutto, cachet degli artisti a parte ovviamente. Una cifra ridicola se si pensa agli sprechi di certi teatri “maggiori” per allestimenti brutti ed inutili. Anche questo deve essere motivo di vanto.
Andrea Merli