Barcellona – Gran Teatre Liceu LUCIA DI LAMMERMOOR 23 Dicembre 2015
Barcellona – Gran Teatre Liceu
LUCIA DI LAMMERMOOR
Gaetano Donizetti
Direttore d’orchestra: Marco Armiliato
Regia: Damiano Michieletto
Personaggi e Interpreti:
- Lucia di Lammermoor: Elena Mosuc (4, 7, 11, 14, 17, 20, 23 Dic)
- María José Moreno ( 5, 10, 12, 15, 18, 27, 29 Dic)
- Edgardo: Juan Diego Flórez ( 4, 7, 11, 14, 17, 20, 23 Dic)
- Ismael Jordi ( 5, 10, 12, 15, 18, 27, 29 Dic)
- Enrico: Marco Caria ( 4, 7, 11, 14, 17, 20, 23 Dic)
- Giorgio Caoduro (5, 10, 12, 15, 18, 27, 29 Dic)
- Raimondo: Simón Orfila (4, 7, 11, 14, 17, 20, 23 Dic)
- Marko Mimica (5, 10, 12, 15, 18, 27, 29 Dic)
- Arturo: Albert Casals
- Normano: Jorge Rodríguez Norton
- Alisa: Sandra Ferrández
Scene: Paolo Fantin
Costumi: Carla Teti
Luci: Martin Gebhardt
Produzione: Opernhaus Zürich
Symphony Orchestra and Chorus of the Gran Teatre del Liceu
Direttore del Coro: Conxita Garcia
Successo al calor bianco per l’ultima delle sei recite – la “prima” il 5 dicembre scorso – di Lucia di Lammermoor con l’atteso debutto di Juan Diego Florez nel ruolo di Edgardo.
Accolto da un applauso interminabile e da grida entusiastiche dopo il recitativo ed aria ”Tombe degli avi miei… Fra poco a me ricovero” e acclamato alla ribalta finale, Juan Diego può dire di esserne uscito assolutamente vincente. Oltre ogni più rosea aspettativa, per quanto “impiccionescamente” mi riguarda, avendo indubbiamente rodato a tempi ravvicinati, nel corso delle cinque precedenti recite, il personaggio, affrontato con una linea musicale adamantina per intonazione perfetta, con misurato accento, controllo stilistico, con un’eleganza nel porgere che nemmeno la banalità di una regia al limite della demenza e della “moderna” prevedibilità – se ne riparla dopo – ha potuto scalfire.
Fedele a sé stesso, senza tentare di gonfiare e scurire una voce che rimane una tromba d’argento e che nell’acuto si espande con grande efficacia e sicurezza. Nella scena della torre, drammaturgicamente irrinunciabile, ma musicalmente labile, dando fuoco alle micce con sfoggio di sovracuti; Florez prosegue un itinerario che presto lo porterà al Werther ed alla Manon di Massenet, al Romeo et Juliette di Gounod. Inutile evocare paragoni col passato, e anche con un certo presente. Egli ha una sua cifra che lo rende identificabile, che ne costituisce, nella peculiarità del timbro, la sua esclusività. Sarà sempre un “tenore leggero”, del resto lo rimase pure Schipa per tutta la sua lunga ed irraggiungibile carriera, e canterà i ruoli “a modo suo”. E lì sta il bello. Caso mai, c’è da auspicarselo, ci sarà una maggior ricerca di colori, non già di dinamiche. Un fraseggio più libero, un immedesimarsi nel personaggio con maggiore scioltezza ed anche enfasi, senza perciò involgarirlo o, peggio, tradire la linea del canto cercando effetti plateali. Ecco, in questo rigore interpretativo sta la forza, ma anche il limite di chi imparata l’arte dovrà cominciare a metterla da parte. E del resto, nemmeno il Werther di Kraus, seppure paradigmatico, nacque “imparato”. Si sono citati, non a caso, i cantanti a cui più si avvicina, pur senza cadere nel tranello dell’impossibile emulazione, Florez. Un cantante da seguire sempre con ammirazione e da cui ci si può ragionevolmente attendere una maturità sempre maggiore.
Espunto il motivo di maggior curiosità, non ci si dimentica certo della protagonista, compagna ideale e sostegno ottimale per l’importante debutto. La navigatissima Elena Mosuc, che del ruolo di Lucia ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia e che, si dà il caso, le ascoltai per primo in tempi insospettabili e prima che la sua fama corresse giustamente per il mondo. Fu una recita in quel di Salonicco, direttore l’amico Francesco Maria Colombo, anch’egli ai suoi primi passi quale direttore e per la regia di Renata Scotto che, trattomi da parte, mi disse: “Questo soprano è da tener d’occhio, farà strada”. Ed io da allora la Mosuc non l’ho più persa di vista. L’ho seguita quanto e come ho potuto, e quindi Gilda, Zerbinetta, Violetta, Elvira de I Puritani, etc. etc. Anche da lontano, grazie ad “impiccionate” altri e/o a registrazioni radiofoniche, ho assistito alla irresistibile ascesa, avvenuta senza sconti, cantando anche in cast alternativi dove più spesso mise in ombra la titolare in cartello, e parliamo di nomi di grido, anche di una sua famosa connazionale.
Qui a Barcellona ha siglato una recita che si è tradotta in una classe magistrale: la sua Lucia, infatti, si pone a metà strada tra il puro coloratura, di cui la Mosuc possiede l’ampio bagaglio tecnico e l’estensione, ed il lirico puro, con accenti drammatici ma senza affondare nel petto, che con gli anni ha maturato, arricchendo di armonici la zona centrale e grave, senza sminuire la portata del settore sovracuto, brillante e squillante con Re acuto e Mi bemolle lanciati su pieno d’orchestra e coro e solisti, per esempio a chiusura del concertato nell’atto secondo, come sciabolate incandescenti.
Il gusto nelle variazioni, già nella cabaletta di sortita e soprattutto nella celebre scena della pazzia, ha un sapore “antico” e lì sta l’originalità, sorvegliata e sostenuta dalla bacchetta, del dialogo ideale con il flauto in orchestra. Applausi a non finire ed un’autentica ovazione alla ribalta finale.
Note positive anche per il resto del cast: il solido e svettante baritono Marco Caria, Enrico dagli accenti violenti, ma non truci, capace di smorzare e di tenere a bada una voce importante, facile all’acuto. Questo, a volte, tenuto fin troppo: ma il pubblico ha gradito e in teatro, in recita, certe licenze non solo sono ammesse, ma a volte auspicabili. Valente tanto nell’aria di sortita – molto apprezzato il recitativo che la precede – quanto nella cabaletta eseguita una sola volta, ma con grande efficacia. Benissimo sia nel duetto con la sorella, coronato da un La ragguardevole, quanto nella scena della torre, dove ha gareggiato in bravura con Florez. Grandissimo successo pure per Simon Orfila, Raimondo Bidebent, beneficiato dalla riapertura del taglio del cantabile del secondo atto, col pertichino di Lucia ed interrotto da applausi frenetici dopo l’arioso del terzo atto. Una voce sonora, dotata di un timbro che non necessita ispessimenti né artificio per scurire e facile all’ascesa all’acuto, anche in questo caso tenuto per il conforto della platea che gli ha riservato alla fine un’accoglienza a dir poco trionfale.
Ottimi nelle parti di fianco i due tenori, lo squillante Normanno di Jorge Rodriguez-Norton e lo “sposino” Arturo, difeso con solvente eleganza dal pur bravo Albert Casals. Adeguata l’Alisa del mezzosoprano Sandra Fernandez, la quale ha avuto modo di mettersi in mostra con la riapertura del taglio al concertato finale del secondo atto.
Ottimo il coro, preparato da Conxita Garcia, e bravissima l’orchestra obbediente al gesto di Marco Armiliato, il quale ha offerto una lettura per molti versi esemplare, sia per la spedita direzione senza cedimenti nel ritmo e slentatezze agogiche, sia per il perfetto controllo del palcoscenico. Ha servito ai solisti su un vassoio d’argento la possibilità di cantare con I giusti fiati, con una misurata libertà di fraseggio, assecondando non già i capricci del singolo, ma la liricità e drammaticità della musica. Anch’egli salutato con grande entusiasmo alla ribalta.
Là dove, essendo all’ultima recita, non si sono presentati i fautori della messa in scena, procedente da Zurigo, per la regia di Damiano Michieletto (ripresa da Roberto Pizzuto) con la scena fissa (una sorta di pendente torre di Pisa di cristallo e mezzo diroccata in mezzo a finta sabbia: costosissima polvere ceramica che, in teoria, non dovrebbe sollevare polvere) di Paolo Fantin, I costumi indefiniti di Clara Teti (alla festa le dame erano tutte sberluccicanti oro come in un popolare spot di vino “cava” catalano) e le luci di Martin Gebhardt.
Si tratta della solita stravaganza drammaturgica: in questo caso il “fantasma”, subito rinominato dai coristi e macchinisti “il maratoneta” poichè ha attraversato la scena senza tregua per tutta la durata dell’opera, si è incarnato in una bella ragazza. Sorta di “Signorina Grandi Firme” di Boccasile uscita dallo sceneggiato Tv in onda in questi giorni: “Il Paradiso delle Signore”. La quale con incedere implacabile e con un’andatura da mannequin d’antan, ha sostituito la fonte con un secchio d’acqua, ha offerto una rosa a Lucia e, buona ultima, l’ha sospinta a suicidarsi (niente paura, si trattava di una controfigura, tra l’altro fisicamente non corrispondente) gettandosi da un trampolino.
Amenità a parte, quali il ballo del Twist con tanto di battimani (oh novità) durante la festa di nozze in casa Ashton, il continuo, quanto inutile, sali e scendi da anguste scale ha messo in ansia pure il pubblico oltre a non favorire di certo gli attacchi dei solisti. Senza tener conto che cantare su piani inclinati o, addirittura, dondolandosi sul vuoto all’altezza di oltre cinque metri dal suolo, non è l’ideale per chi deve snocciolare note e seguire il gesto del direttore. Tant’è, ce l’hanno fatta anche con una regia che navigava contro. Di certo, nella scena della sfida del secondo atto, Juan Diego Florez, buttato a terra, menato e preso a calci, non s’è esibito a petto nudo. Meno male che c’è ancora chi usa il buon senso e si ribella, almeno dove e quando può!
Andrea Merli
(Foto: Antoni Bofill)